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Alessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it
Requiem per una maschera
Pensieri e parole sull’era (terminata?) del Covid dopo il casuale ritrovamento, tra i cassetti di casa, di una mascherina ancora sigillata
Pubblicato il 04-11-2022
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In questi giorni, facendo un po’ d’ordine tra i cassetti di casa, ho rinvenuto una mascherina anti-Covid.
È una mascherina del tipo “chirurgico”, ancora sigillata nella sua confezione e rigorosamente Made in China.
In Cina - a quanto pare - è iniziata l’era del Coronavirus e in Cina hanno prodotto miliardi di dispositivi di protezione personale contro quello stesso virus. L’Alfa e l’Omega di tutta questa mesta vicenda.

Foto Alessandro Tich
Era da un po’ di tempo che non prendevo in mano le “chirurgiche”. Ultimamente la razza umana si era evoluta con le FFP2, che nel nostro Paese erano diventate obbligatorie in varie situazioni, prima fra tutte quelle del trasporto pubblico.
Ho ancora una FFP2 nascosta nella tasca di qualche mia giacca, avendola più volte usata fino a poco più di un mese fa, non avendo mai creduto all’utilità del “monouso”.
Ancora lo scorso 27 settembre, dovendo andare a Roma per la conferenza stampa nazionale di presentazione della mostra di Canova a Bassano, ho percorso mezzo Stivale in andata e ritorno con la mia bella museruola su naso e bocca all’interno del mio bel Treno ad Alta Contagiosità. Non potevo fare altrimenti: pena sanzione pecuniaria, blocco del treno, segnalazione alle forze dell’ordine, denuncia eccetera eccetera. Lo Stato ha sempre saputo come rendersi convincente e soprattutto vessatorio in caso di trasgressione.
E lo scrive uno come me che, di norma, ha sempre obbedito come la stragrande maggioranza dei miei consimili alle varie regole imposte dal governo ai cittadini nei due anni della pandemia.
Quella museruola la tengo ancora nella tasca di una giacca in armadio perché è ancora raccomandata negli ambienti sanitari e pertanto dovrei ancora indossarla nel caso dovessi recarmi (spero sempre per lavoro) all’ospedale.
Ma per tutto il resto siamo finalmente ritornati portatori di nasi e di bocche in libertà.
E quella mascherina chirurgica cinese ritrovata per caso e ancora sigillata nella sua confezione, che a questo punto spero di non aprire mai più, rimane un simbolico elemento di memoria sul nostro recente passato di esseri, umani per modo di dire.
Sembra quasi impossibile pensare che quel pezzetto di tessuto in polipropilene fosse diventato una inamovibile estensione del nostro corpo e che per così tanto tempo, rinchiusi per legge nella parte inferiore del viso, ci siamo abituati ad inspirare la nostra stessa anidride carbonica appena espirata dal nostro eroico apparato respiratorio.
Mi ricordo - e come scordarselo? - la prima volta che ne ho indossata una, ai primi di marzo del 2020, quando il virus era ufficialmente arrivato in Italia mietendo le prime vittime e per mesi non sarebbe stata disponibile neppure l’ombra di un dispositivo di protezione personale, coi bavaglini che venivano confezionati con le stoffe di casa.
Ero a Bassano, intento ad andare in redazione, e ho compiuto il rito della vestizione in una via secondaria, per non dare troppo nell’occhio. Mi sentivo strano, non a mio agio e certamente anche ridicolo. Avevo a casa una scatola di mascherine cinesi, ma non per fini “sanitari”: erano quelle che si usano per fare le pulizie, per evitare di inspirare la polvere o altre amenità varie. La mia prima mascherina è stata una di quelle e avrei continuato ad usarle assieme alla mia famiglia, tutto il lockdown compreso, fino a esaurimento scorte.
Da allora in poi quel pezzetto di tessuto, con l’arrivo in Italia dei primi contingenti di mascherine che all’inizio sembravano introvabili, ci ha cambiato esteriormente, nell’aspetto, e interiormente, nell’anima. È diventato una barriera non solo di presunta protezione, ma anche di distacco e di conflitto sociale al di là del distanziamento già imposto dai vari Dpcm.
Chi non lo portava - e c’era anche chi, rappresentante di una ristretta minoranza, andava in giro senza maschera - veniva mal visto alla stregua di un untore.
Non mi dimenticherò mai - era il tempo del lockdown, quando potevi uscire di casa solo per fare la spesa con autocertificazione in tasca - le urla assordanti e scomposte di un’addetta di un supermercato, a livelli di isteria pura, nei confronti di un anziano cliente che per parlare con la moglie al telefonino si era temporaneamente abbassato la mascherina sotto il mento. Gli avesse chiesto gentilmente di rimetterla su naso e bocca avrebbe ottenuto lo stesso effetto, ma in quel periodo eravamo figli del Terrore.
Poi, volenti o nolenti, ci siamo tutti abituati perché una delle peculiarità che ci fa andare avanti è anche quella di abituarci al peggio. Ci siamo conformati fino all’ultimo a questa seconda pelle sintetica al punto che in molti hanno continuato a portarla all’aperto, e più di qualcuno la indossa ancora oggi, anche quando l’obbligo di indossarla è stato estinto.
Sono cose che io ho rimosso e che tutti, più o meno, hanno rimosso, per la naturale propensione umana a distogliere il pensiero dalle circostanze spiacevoli.
Tuttavia quella mascherina chirurgica, sigillata e pronta all’uso, che ho rinvenuto nel cassetto ha provocato in me un improvviso “flashback” di tutto ciò che è stato.
Potrei gettarla via nel bidone del secco, ma non lo farò, almeno per il momento.
E non perché ritenga di doverla usare, giammai fosse. Anche perché, all’occorrenza, ho sempre la FFP2 ripiegata nella tasca della giacca. La conserverò, sempre che un giorno non mi venga voglia di disfarmene, come cimelio di un’epoca.
Quel riquadro di tessuto anti-Covid cinese è infatti una reliquia rappresentativa di un’era storica (anzi, tristemente storica) direttamente vissuta. Che a forza di tapparci il naso e la bocca ha finito col tappare il nostro stesso raziocinio.
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