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Alessandro Tich
Direttore Responsabile
Bassanonet.it
La Pedemontana e l’Autonomia
L’aberrante convenzione economico-finanziaria della superstrada a pedaggio e l’aspirazione di trasferire le competenze dallo Stato al “buon governo” regionale
Pubblicato il 02-10-2022
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Premessa chiarificatrice: ho aspettato volutamente di scrivere e di pubblicare questo editoriale dopo le elezioni politiche di domenica scorsa 25 settembre.
Questo per evitare che quanto esporrò nelle righe seguenti possa in qualsiasi modo essere interpretato come un’espressione di parte, di indicazione al voto, di orientamento, di schieramento o di altre amenità varie.
Ora i giochi sono fatti e posso concentrarmi sul tema che in campagna elettorale nel Veneto ha visto rincorrersi i vari partiti e le varie liste: da destra (soprattutto) a sinistra. E mi riferisco, ovviamente, all’autonomia.
Un tratto della Superstrada Pedemontana Veneta (foto Alessandro Tich - archivio Bassanonet)
La quale, sotto il profilo puramente teorico, è una gran bella idea.
Ne sono convinti anche quegli oltre 2 milioni e 200mila veneti, poco più della metà dei residenti nella nostra Regione aventi diritto al voto, che al referendum consultivo del 22 ottobre 2017 sull’autonomia del Veneto hanno risposto con un plebiscito ultra-bulgaro, facendo vincere il “Sì” con il 98,1% dei consensi.
Da allora è passato un lustro, l’autonomia del Veneto è rimasta chiusa ermeticamente nel cassetto dei sogni e la questione è stata rilanciata nell’ultima campagna elettorale soprattutto dalla Lega, prima depositaria delle aspirazioni autonomistiche della Regione del Leon.
Vista la deludente percentuale di voti ottenuta in Veneto dal partito di Salvini, un tempo egemone (tra il 14 e il 15% nei due collegi plurinominali, ampiamente doppiato da Fratelli d’Italia), sembra proprio che l’interesse per l’argomento autonomia non tocchi più così tanto le corde dei cittadini e si sia in gran parte dissolto rispetto all’unanime ondata di cinque anni fa.
Ma questa è un’altra storia, che esula dagli obiettivi della presente analisi.
Ma prima di entrare nel merito dobbiamo innanzitutto ricordare che cosa si intende esattamente per autonomia regionale ovvero delle Regioni a statuto ordinario.
Si tratta, sostanzialmente, di un passaggio di competenze e delle relative risorse economiche dallo Stato centrale alle Regioni per diverse materie specifiche della pubblica amministrazione, il cui numero può variare da Regione a Regione. Per questo si chiama anche “autonomia differenziata”. Lo Stato, cioè, dopo gli opportuni negoziati e a seguito di legge approvata dalle Camere a maggioranza assoluta, concede alle Regioni di gestire in proprio e soprattutto con i propri schei alcuni settori della cosa pubblica.
Per quanto concerne il Veneto, la richiesta di autonomia riguarda 23 materie da trasferire dalle competenze di Roma a quelle di Venezia.
C’è di tutto e di più: dall’istruzione al commercio con l’estero, dalla tutela dell’ambiente e dei beni culturali alle professioni (fino ad oggi regolate da albi nazionali), dalla protezione civile al coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, dall’organizzazione della giustizia della pace alla sanità (“tutela della salute”), dalla ricerca scientifica e tecnologica alle grandi reti di trasporto e di navigazione e via elencando fino ad arrivare, addirittura, alla produzione, trasporto e distribuzione dell’energia.
Sono quasi tutte le cosiddette materie “trasferibili” o “concorrenti” indicate dall’articolo 117 della Costituzione e disciplinate dal terzo comma dell’articolo 116 e che sono in tutto, nel loro pacchetto complessivo, 26.
L’impianto politico dell’autonomia del Veneto poggia essenzialmente sulla retorica del “buon governo” regionale. Si parte cioè dal presupposto che le ingenti risorse trasferite dallo Stato alla Regione per la gestione autonoma delle competenze ottenute costituiscano un nuovo e assai più esteso campo di applicazione dell’“amministrazione virtuosa” sin qui dimostrata dal governo del Veneto.
Che la Regione Veneto sia un ente virtuoso non lo dico io ma lo ha detto il governatore Luca Zaia nella sua relazione consegnata in sede di audizione presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del Federalismo fiscale il 3 aprile 2019.
Nel capitolo della relazione dedicato al complesso tema delle risorse dello Stato per l’attuazione dell’autonomia, Zaia riferisce che “secondo l’esito degli incontri finora intervenuti con il Governo” l’avvio del processo autonomistico e quindi la copertura dei costi delle competenze acquisite dalla Regione verrebbe finanziato dallo Stato in base al criterio della “spesa storica”. Al Veneto, cioè, verrebbero attribuite esclusivamente le risorse che lo Stato spendeva per le stesse competenze nel territorio regionale prima dell’autonomia, e non un euro in più. Tot spendeva lo Stato nel tuo territorio, e tot tu Regione “autonoma” ricevi.
Per Zaia “la spesa storica rappresenta una scelta strutturalmente rigida, sicuramente non al passo con i tempi, che penalizza le realtà più virtuose, in quanto non stimola una maggiore efficienza nella gestione del denaro di tutti”.
Secondo il governatore veneto “è un criterio che premia solo le amministrazioni che hanno speso di più, a prescindere dalla qualità nell’utilizzo delle risorse, e non coloro che hanno adoperato i soldi pubblici seguendo un principio di efficienza.”
“Non si fa cioè riferimento - è il passo successivo della relazione - a nessun criterio di merito, né tantomeno di premialità per le realtà territoriali che abbiano impostato la propria amministrazione sul contenimento dei costi e sull’efficientamento nell’esercizio delle funzioni e nell’erogazione delle risorse.”
Da qui l’appello di Zaia al governo di passare quanto prima dal criterio della “spesa storica” a quello dei cosiddetti “fabbisogni standard”: non più una quota fissa e “pre-calcolata” da trasferire alla Regione ma una quota ritagliata su misura che viene trasferita dallo Stato in base alle esigenze e ai costi effettivi dell’esercizio delle competenze trasferite.
“La spinta riformatrice apportata dalle iniziative volte all’attuazione dell’art. 116, terzo comma della Costituzione - afferma Zaia nella relazione -, potrà allora costituire l’occasione per giungere, finalmente, alla definizione di “fabbisogni standard”, quali parametri che guardano alla qualità della spesa, in modo tale che la stessa corrisponda effettivamente ai servizi offerti ai cittadini.”
Anche in questa occasione vi invito a porre attenzione al linguaggio e alle parole: “realtà più virtuose”, “principio di efficienza”, “contenimento dei costi”, “qualità della spesa”, “qualità nell’utilizzo delle risorse”. Le qualità del “buon governo” regionale, appunto, che con la tanto decantata autonomia da “buono” diventerebbe meraviglioso.
Ma adesso, come dicono i conduttori dei telegiornali, voltiamo pagina.
Per parlare, come ho già fatto più volte, di una lunga striscia di asfalto a noi vicina: la Superstrada Pedemontana Veneta.
Le sue clamorose incongruenze sono ormai ben note, ma non fa male ogni tanto ricordarle.
E traggono origine da un documento che può ben considerarsi il libro di testo dell’autolesionismo amministrativo: il Terzo Atto Convenzionale siglato nel 2017 tra la Regione Veneto e la società concessionaria dell’infrastruttura a pedaggio Superstrada Pedemontana Veneta Spa. Il Terzo Atto di una farsa teatrale su cui a suo tempo l’ex sindaco di Montebelluna ed ex senatrice del PD Laura Puppato ebbe a dire che “neanche da ubriachi si poteva firmare un accordo così”. Parole sacrosante, indipendentemente dallo schieramento politico di chi le ha pronunciate.
Il contratto firmato dall’amministrazione veneta tutela infatti l’appaltatore privato da ogni rischio d’impresa, riversandolo sulle tasche dei cittadini. I flussi di traffico sulla Pedemontana e i conseguenti profitti per il concessionario privato saranno insufficienti?
Niente paura: paga Pantalon.
Il Terzo Atto Convenzionale sancisce infatti che la Regione Veneto, oltre a un contributo straordinario di 300 milioni di euro, si impegna a garantire per 39 anni una quota di risorse, chiamata tecnicamente “canone di disponibilità”, di 153 milioni di euro all’anno a favore di Pedemontana Veneta Spa. Canone che tuttavia è destinato ad aumentare col tempo, fino a toccare la quota di 332 milioni annui nel 2059.
La terza convenzione garantisce quindi una rendita fissa che l’ente pubblico dovrà versare al privato a prescindere dagli incassi, quindi anche se la superstrada dovesse rivelarsi un Deserto dei Tartari.
Ne risulta un esborso complessivo per le casse regionali nei confronti del privato di oltre 12 miliardi di euro. O, se preferite - per fare ancora più s’cioco -, di quasi 24.000 miliardi delle vecchie lire. Vale a dire tre volte il costo del mai realizzato, perché troppo oneroso, Ponte sullo Stretto di Messina. Bedda matri.
Nelle scorse settimane il quotidiano L’Indipendente ha pubblicato un’intervista all’ingegner Nicola Troccoli, progettista ed unico firmatario della progettazione preliminare dell’intera SPV per conto della ditta concessionaria Consorzio Stabile SIS Scpa, a cui poi è subentrata nella concessione la correlata Superstrada Pedemontana Veneta Spa.
Il quale ha puntato il dito sull’“immane spreco di soldi pubblici” conseguente alla convenzione economico-finanziaria del 2017 da un punto di vista esclusivamente tecnico, come di sua competenza.
L’ing. Troccoli ha dichiarato che si tratta di “un tipo di accordo che privatizza i profitti e socializza le perdite, proteggendo, a spese dei cittadini e dell’Erario, l’azienda appaltatrice da ogni rischio d’impresa” e di “una scelta assolutamente antieconomica ed irrazionale”.
Ma anche una scelta senza la quale - e anche su questa cosa dobbiamo profondamente riflettere - la Pedemontana sarebbe tristemente passata alla storia come “l’incompiuta” del secolo. Proprio qui: nel mitico Nordest d’Italia.
“Se, infatti, si fosse rimasti con il rischio a carico del promotore (così come previsto dal bando) - ha affermato il progettista -, molto probabilmente l’iniziativa non sarebbe nemmeno partita, perché con quelle condizioni e con quell’alto rischio determinato dai flussi di traffico, non sarebbero mai stati trovati investitori.”
E così, egregi lettori, teniamoci pronti a tirare fuori per lungo tempo i denari che una volta incamerati dalle casse della Regione passeranno ai conti correnti del concessionario: un “fabbisogno standard” di soldi dovuti al privato che attingerà per quattro decenni e attinge già adesso alle nostre tasche, chiamate anche ad ammortizzare da qui all’eternità i costi di realizzazione dell’arteria, il cui cantiere si è prolungato a dismisura e la cui spesa si è gonfiata in proporzione.
La tanto promessa gratuità della SPV - per un certo chilometraggio - per i residenti lungo il tracciato è scoppiata come una bolla di sapone e già oggi paghiamo alla Regione Veneto, che li incassa perché di sua competenza, i pedaggi tra i più cari d’Italia.
La Pedemontana non è più una superstrada a pedaggio: è diventata, per noi cittadini, una superstrada a pedate. Nel didietro.
Chiudiamo adesso il cerchio con quanto ho esposto nella prima parte di questo lungo (scusatemi) editoriale. Ricordando anche che il presidente Luca Zaia, nella conferenza stampa di fine anno del 2019, a cui ero presente, aveva testualmente dichiarato: “L’autonomia deve saper gestire anche le sue strade.”
Ma quanto di “virtuoso” c’è in questa voragine di soldi pubblici impegnati da qui ai prossimi 39 anni? Può un “buon governo” regionale costringere anche i nostri figli a contribuire nel futuro al pesante debito pubblico del “canone di disponibilità” dovuto al privato?
Che tipo di “contenimento dei costi” e di “qualità della spesa” può vantare una Regione che a fronte dell’incognita dei flussi di traffico si sostituisce al rischio d’impresa, coprendone il deficit, del concessionario?
Siamo dunque disposti a dare un assegno in bianco, per farle gestire coi nostri soldi e in autonomia 23 competenze tra le quali anche le “grandi reti di trasporto”, a una Regione che è riuscita a produrre un simile capolavoro di esborso pubblico a favore del privato?
In altre parole: siamo proprio sicuri che un Veneto “autonomo” garantisca a prescindere una gestione efficace, efficiente ed oculata delle risorse trasferite dallo Stato e che il nostro caro vecchio Leon, diversamente dall’Elefante romano, sia un amministratore della cosa pubblica meritorio di fiducia incondizionata?
Sono le domande che si insinuano in questa contraddizione tutta italiana.
In una grande impresa privata un amministratore delegato che producesse dei risultati economici così aberranti riceverebbe il benservito e verrebbe rispedito a casa.
In Veneto, il principale amministratore dell’ente regionale è stato invece rieletto a furor di popolo.
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