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Senza preavviso, senza comunicati stampa, senza singoli in radio né interviste. I Radiohead compaiono dal nulla con un disco nuovo in download digitale (questa volta a pagamento, però).
The King of Limbs è creatura magmatica, complessa, e ambigua. Che apre un'infinità di domande, fa discutere, e conferma – se non altro, ancora una volta – la statura mondiale di una band che ha tradizionalmente messo d'accordo grande pubblico e critica d'élite.

La copertina di "The King of Limbs".
La prima sensazione, fortissima, è l'allontanamento dalla forma-canzone semplice e pulita del predecessore In Rainbows. Si sente l'eco, più lieve e meno rivoluzionario, della svolta di undici anni fa: l'accoppiata Kid A / Amnesiac costringeva a ripensare dalla base il concetto di musica rock. “Ice age coming”, cantava Thom Yorke. Qui invece c'è uno scarto, un passaggio fuori pista. L'intimismo del disco rimasto nella storia per il download gratuito con la formula “It's up to you” (“Dipende da te”), viene quindi rimescolato in pesanti influenze elettroniche e in testi tornati enigmatici e visionari (“I'm moving out of orbit”, dalla prima traccia, Bloom).
È forte l'influenza di certa musica elettronica del sottobosco urbano londinese, soprattutto il dubstep di Burial, e lo si sente soprattutto nelle scelte ritmiche: il lavoro su strutture sincopate e frammentarie delle percussioni, acustiche ed elettroniche, è davvero importante (in Morning Mr. Magpie sembra che i Radiohead di The Bends siano stati processati da una drum-machine impazzita, mentre Feral è quasi un tributo al dubstep). Ma non solo il talentuoso William Bevan; anche l'enfant-prodige James Blake, il solito Four Tet, e i richiami all'ambient '70 di Brian Eno e soci si possono rintracciare nelle pieghe dell'album.
È d'altro canto un disco in cui certamente, più che nei capitoli precedenti, si fa decisa e a tratti ingombrante la mano di Thom Yorke: troppo simili alcuni momenti di The King of Limbs al suo disco solista di cinque anni fa, The Eraser (Little by little, su tutti, molto affine a Blonde Redhead e Portishead).
Tra Feral, la traccia più spinta, sperimentale, e perciò vicina alle atmosfere di Amnesiac e Kid A, e la splendida Lotus Flower – senza alcun dubbio l'episodio più convincente del disco: melancolia electro in purissimo stile Radiohead – si naviga insomma in acque torbide, dove lo sperimentalismo è di casa e non c'è né la voglia, né l'esigenza (i maliziosi potrebbero aggiungere: né l'ispirazione) di dare una struttura classica alle canzoni. The King of Limbs è un flusso di coscienza che provoca l'ascoltatore, lo confonde e lo ipnotizza.
Codex apre così la sezione conclusiva del disco: la ritmica nervosa e scomposta dei brani precedenti si liquefa in un battito lentissimo e costante a far da sfondo al piano e alla voce (davvero tra le più belle di questo secolo) di Yorke. Ballad eterea sullo stile di Pyramid Song.
Per chi scrive, è con Give up the Ghost che si ha l'unica netta inflessione del lavoro. Un intervallo acustico inaspettato e un po' troppo ripetitivo. Separator chiude infine i battenti con una soluzione ritmica particolarmente ispirata e un'atmosfera decisamente più positiva: “If you think this is over / then you're wrong” (“Se pensi sia finita, ti stai sbagliando”: che ci sia da aspettarsi un seguito come fu per la doppietta Kid A / Amnesiac?).
Va masticato con calma, dunque, l'ottavo capitolo della saga Radiohead. Si tengano alla larga i facili detrattori del primo ascolto: da queste parti ci si può permettere ancora di spiazzare pubblico e critica dopo tre anni di silenzio. A prescindere che si sia di fronte al più libero sperimentalismo o a una tiepida ispirazione, ancora un chapeau per la band di Oxford.
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