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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

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Lo sguardo dell'Esquimese

È andato in scena ieri sera, mercoledì 30 agosto, al CSC Garage Nardini per B.Motion, la sezione dedicata al teatro contemporaneo di Operaestate, Un Esquimese in Amazzonia

Pubblicato il 31-08-2017
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Brassaï. L’occhio di Parigi

È andato in scena ieri sera, mercoledì 30 agosto, al CSC Garage Nardini per B.Motion, la sezione dedicata al teatro contemporaneo di Operaestate, Un Esquimese in Amazzonia, spettacolo vincitore ex equo del Premio Scenario 2017 presentato dalla compagnia “The Baby Walk”.
Sul palco, interpretato da cinque giovani attori della compagnia, il bailamme del confronto quotidiano tra l’Eschimese, ovvero la persona transgender, e la società. Terzo lavoro di una trilogia che il gruppo ha dedicato al tema dell’identità di genere (Peter Pan guarda sotto le gonne il primo capitolo, Stabat Mater il secondo), lo spettacolo offre con naturalezza e semplicità la visione del mondo e della comunità dalla prospettiva della persona transgender (interpretata da Liv Ferracchiati) — “l’Esquimese” nella metafora mutuata da una frase diventata celebre dell’attivista Porpora Marcasciano — che vive il disagio dell’umidità respingente e insieme appiccicosa della foresta amazzonica, e che cerca di ambientarsi cercando un contatto con la comunità indigena che lo circonda.
La gente è rappresentata di quattro giovani attori nell’assetto perenne di un coro che re-agisce all’unisono alla presenza inedita, non prevista del nuovo vicino di casa. Per opportunità del genere di quelle da tre scimmiette le persone in transito, con un’identità non definita, o non riconosciuta, non vengono considerate, o peggio, nel tessuto sociale imbastito da una sottocultura binaria. Incapace di gestire le emozioni che suscita il contatto con “l’alieno” che tende loro il dito, la comunità avanza comportamenti che declinano gran parte degli schemi e degli stereotipi che la governa: curiosità morbose; paure eccessive, un panico da bigotte, detto alla Jacques Brel, che fa chiudere in un recinto al comando dell’urlo: “i bambini!”; abbracci invadenti che fanno più male che bene e forme di non ascolto inquietanti, assordati dal canto delle loro stesse voci incongrue, linkate, che urlano a squarciagola “voglio una vita spericolata” e lallano insieme lo sgomento per la vittoria di Donald Trump, e i “sì, chef” a cui ci ha abituato MasterChef Italia. Tutte forme di reazione che alimentano il senso di emarginazione e di stigmatizzazione che vive questa persona, nella sua corsa spesso in affanno a sperimentare un’esistenza dalle dinamiche complesse e drammatiche, dove neanche l’immagine e la forma del corpo sono definite e possono dare sicurezza.

“The Baby Walk”, in Un Esquimese in Amazzonia

«Era Lady o era Oscar?», si chiede il piccolo esquimese degli anni Novanta cresciuto a cartoni animati in cerca di riferimenti, di rispecchiamenti che potessero aiutarlo a capire. Lui ha sempre amato il calcio e “Holly e Benji”, e nelle liti tra bambini a volte le dava, nonostante fosse una bambina. Indossa anche ora che è grande una maglietta da calcio col numero 10, l’Esquimese, ma spesso si sente solo 0, o al massimo 1. Neanche il linguaggio aiuta: parla di sé al maschile, ma nella foresta ci si fa riguardo, e allora alterna.
Lo spettacolo termina con l’Esquimese che palleggia da solo un pallone che rappresenta forse la sua esistenza “fuorigioco”, imprimendogli vita: resta sullo sfondo, il suo dito del tutto umano teso verso il mondo.
Applausi, dal pubblico di Operaestate.

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