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Modalità lettura - n.3

Le stagioni de Il deserto dei Tartari, il celebre romanzo di Dino Buzzati: una recensione di Marco Cavalli

Pubblicato il 26-02-2017
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Elena Pavan

La rappresentazione de Il deserto dei Tartari, produzione del Teatro Stabile del Veneto, adattamento e regia di Paolo Valerio, ha inaugurato lo scorso 6 dicembre la stagione teatrale bassanese “Il Teatro ti fotografa”. Il romanzo di Dino Buzzati, pubblicato nel 1940, segnò la consacrazione dello scrittore bellunese tra i grandi del Novecento italiano.
Qui di seguito, una recensione del libro per Modalità lettura inviataci dal critico letterario Marco Cavalli, che ringraziamo.

dallo spettacolo "Il deserto dei Tartari", produzione del Teatro Stabile del Veneto

Per ragioni d’anagrafe culturale (sono nato nel 1968), ho letto Il deserto dei Tartari molto presto, credo in quarta o in quinta elementare. Allora la pubblicità del romanzo di Dino Buzzati era accerchiante. Le maestre lo raccomandavano con enfasi. Gli inviti diventavano, alle medie, intimazioni prolisse, talvolta melliflue. I coetanei miei che facevano gli gnorri inciampavano all’uscita da scuola in qualche parente sciagurato, collaborazionista inconscio, che approfittava dei loro compleanni per regalare il romanzo. Non che leggerlo costasse chissà quale sacrificio.
Che cos’è stato per me Il deserto dei Tartari? Un bel racconto, magari un po’ tirato per le lunghe, zeppo di immagini e di situazioni stilizzate, non prive di suggestione ipnotica. L’eroe di questa favola al rallentatore, Giovanni Drogo, possiede un carattere che i giovanissimi non possono non apprezzare: si infervora prontamente e con altrettanta prontezza si demoralizza. Ogni schema emotivo corrisponde a un cambio di prospettiva, e l’uno definisce l’altro. La fortezza Bastiani riceve senza colpa lo sguardo estatico che la ingrandisce e quello deluso che la nanifica. Drogo è convinto che da qualche parte nel tempo sia in arrivo per lui l’occasione di mettersi alla prova e di far risaltare le sue doti migliori ricacciando indietro la paura di essere impari a se stesso. Da ragazzi ci si gingilla spesso con idee del genere, e anche col pensiero che l’attesa dell’occasione giusta sia il sistema adatto a propiziarsela; anzi, dia diritto a esigere la sua apparizione. Pregiudizi da debuttante, certo. Ma è un pregiudizio anche considerare inutile e mendace qualunque aspettativa, come fa Drogo quando ormai è in là con gli anni.
Le stagioni del libro sono la giovinezza e la vecchiaia. Conosciamo Giovanni Drogo tenente di fresca nomina e ci congediamo da lui, prostrato nel fisico e nel morale, che ha sulle spalline il grado di maggiore. Tra la prima e la terza età, il vuoto. Drogo passa dal desiderio di vivere al rimpianto di non aver vissuto, senza transizione in stati d’animo intermedi. Manca l’epoca in cui il cambiamento non è più soltanto atteso, sofferto o esorcizzato, ma ricercato attivamente, prodotto. In breve, manca il romanzo della vita. Il deserto dei Tartari è il libro dell’infanzia che, per aver eluso il confronto con il periodo della maturità, ritrova nella vecchiaia tutti i suoi assilli intatti e mutati di segno.
A rileggerlo oggi, il bestseller di Buzzati consente di fare ulteriori scoperte. Una di queste è che il disinganno non risponde alle attese con maggiore efficacia della speranza. L’età degli ideali e quella dello scetticismo spremono la stessa accidia. Ecco confermato un sospetto che avevamo fin da bambini: è annoiarsi il vero privilegio che si vuole ottenere dalla vita. Piacere di non gioire, non soffrire, non fare bagagli, non disfarli, non aprire partite affettive, non avere pendenze di alcun tipo. Niente di cui scusarsi, niente da confessare, niente da spiegare. Lasciarci erodere dall’esistenza che sgocciola via apprendendo gradualmente che non siamo né migliori né diversi dal resto degli uomini. Una consapevolezza che fa sudare dispetto, dolore, disperazione, e che sul più bello asciuga in un sollievo improvviso.

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