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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

Il Sillabario di Malaguti

A tu per tu con l’autore. Paolo Malaguti ha presentato a Marostica il suo libro che racconta un viaggio sentimentale tra le parole venete

Pubblicato il 04-03-2013
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Giovedì 28 febbraio, alla Piccola Libreria Andersen di Marostica, Paolo Malaguti ha presentato il suo Sillabario veneto raccontando le tappe del viaggio sentimentale che ha intrapreso in un lessico dialettale e famigliare ricco di echi di memoria e di “veneticità”. Il libro, pubblicato da Santi Quaranta (la prima edizione è del 2011), offre un’esplorazione filologica e storica di ventinove termini della lingua veneta – quelli che compaiono tra le pagine sono molti di più – che avanza in un amalgama ricco di affetto e di richiami a un passato da cui emergono i volti delle persone, le descrizioni di ambienti, l’eco di mestieri legati alla tradizione, tanto che la narrazione che scorre dalla A alla Z piana e divertente a tratti assume delle inedite connotazioni sociologiche.
Nel corso dell’incontro organizzato e curato da La Fucina Letteraria, l’autore padovano (da tempo risiede a Borso del Grappa) ha analizzato coi presenti alcune parole scelte estrapolate dall’elenco presente nel libro e ha spiegato genesi, vizi e virtù dell’opera di studio del passato e del territorio che sta portando avanti attraverso la scrittura.

Paolo Malaguti (foto L. Vicenzi)

Quale parola ha dato inizio all’elenco e quale altra segna la tappa più affettuosa nel tuo viaggio sentimentale?

La parola da cui sono partito con la mia ricerca è stata ratatuja. Un po' perché il termine appartiene al lessico domestico della mia famiglia, un po' per il fascino profondo del suo significato, che rimanda al mondo del disordine, del superfluo, all'accumulo di oggetti e di memoria... Il termine che forse, tra tutti, ho amato di più per i ricordi ad esso collegati, è stato boresso. Lo scavo attorno a questa parola mi ha dato modo di ripercorrere le situazioni della mia infanzia (il gioco in campagna, le giostre della sagra paesana) in cui ho vissuto i boressi più memorabili della mia vita, perfetti proprio perché legati ad un periodo dell'esistenza, l'infanzia appunto, in cui ci si può permettere di non avere preoccupazioni o timori del domani, vivendo così appieno il presente.

C’è qualche parola esclusa, certo per motivazioni editoriali, di cui rimpiangi un po’ l’assenza?

Tra tutte di certo ho amato molto la suca baruca, per lo scavo etimologico che mi ha condotto addirittura all'ebraico baruch (benedetto), al mondo fertile del rapporto tra gli ebrei del Ghetto e Venezia. Questo termine, tra l'altro, mi permette di dimostrare in modo eclatante come le radici del codice veneto si allarghino a 360 gradi, pescando dal latino, dal germanico, dal longobardo, dall'ebraico appunto, ma anche dal greco, dall'arabo e, addirittura, dalle lingue dell'America precolombiana (penso al termine cicara)!

L’analisi delle parole che hai scelto è ricca di rimandi colti, fai tesoro dei tuoi studi della filologia e di molte letture – dichiari la tua gratitudine ai testi di Ruzante, Meneghello, Sanudo, Parise, Camon, Bernardi – eppure la cifra che emerge dalla lettura del libro è colloquiale, sembra di stare a filò.

È vero: sono debitore, in primis, al Meneghello di “Pomo Pero” e di “Maredè Maredè”, letture di capitale importanza. Però nel “Sillabario” metto in luce come da un lato Meneghello, e, all'indietro, tutti gli altri grandi della letteratura veneta, di fatto fossero in pieno possesso di quel codice linguistico, ne fossero padroni. Io, facendo parte della generazione “orfana” dell'insegnamento orale del veneto, sono per così dire obbligato a un rapporto con questa lingua più disordinato, irrazionale, basato sulla memoria familiare soggettiva.

Nel libro spesso la lingua veneta e il rapporto con le parole sono connotati da tratti femminili, materni. La linea di discendenza si è interrotta, “conclusa” dici tu, perché è venuta a mancare la capacità creatrice del dialetto?

Il problema della fine del veneto come codice linguistico vivo è al centro delle riflessioni del “Sillabario”. Come scrivono Meneghello e Pasolini, le culture orali e popolari sono venute meno per più fattori, tra i quali sicuramente i più rilevanti sono, da un lato, la scolarizzazione, con la scelta, frequente negli anni Cinquanta e Sessanta, portata avanti con metodi pedagogicamente inappropriati, di squalificare il dialetto, di proibirlo, quasi di condannarlo, come codice di “serie B”, proprio dell'ignoranza e della marginalità sociale; e, dall'altro, la diffusione dei media di massa, in primo luogo la televisione, che ha imposto un codice comunicativo basso, puramente funzionale, certamente impoverente sia verso l'italiano che verso le parlate regionali.

Nella postfazione al libro scrivi “Usare qualcosa non vuol dire possederla”. L’uso esclusivo di questa lingua che ne fanno i dialettofoni, non accompagnato dalle opportunità che offrono la pratica dell’italiano e lo studio delle altre lingue, è un arroccamento che priva della possibilità di apprezzare a pieno la sua bellezza.

Sicuramente sì. Proporre un ritorno “totale” al veneto non è solo storicamente inattuabile, ma culturalmente dannoso. Possedere più codici linguistici, e farli vivere in un mutuo scambio, permette al parlante una libertà espressiva e una padronanza della realtà sicuramente maggiore. Sono convinto che la scuola e il mondo del lavoro debbano essere gli scenari per il potenziamento e la frequentazione dell'italiano e delle lingue straniere. La famiglia invece, potrebbe essere di nuovo, senza troppi sforzi, uno spazio vivo ed affettivamente connotato per la rifioritura del veneto parlato, libero e, soprattutto, non grammaticalizzato.

Da insegnante (Malaguti è docente al liceo Brocchi di Bassano), come senti il rapporto dei giovani con il dialetto locale?

È raro trovare studenti esperti del veneto. Al massimo gli adolescenti si possono permettere una sorta di “verniciatura” veneta superficiale, ma il progressivo impoverimento del bagaglio lessicale in italiano è complementare a una pressoché totale mancanza sul fronte del lessico veneto. Però posso dire che, come per l'italiano o il latino, non appena si portano gli studenti sul terreno del ragionamento etimologico, del confronto tra le parole, sulle loro radici, allora l'interesse è notevole. In sintesi, posso dire che le ultime generazioni tendono a rifiutare, o a maltollerare, ciò di cui non intuiscono il senso e la spendibilità. Ma non appena si riesce a soddisfare questa (credo giusta) richiesta di “perché?”, la loro motivazione aumenta, quale che sia la materia in questione.

Cosa si può fare, in questo tempo che corre su fibre ottiche, nella scuola o in famiglia, per non lasciare i ragazzi “orfani e mutili” della lingua dei loro padri?

La risposta può apparire banale... Si può parlare! Se le famiglie (o i gruppi culturali, o le associazioni...) creano occasioni di comunicazione, momenti di scambio verbale, allora il patrimonio lessicale (e in italiano e in veneto) passa da una generazione all'altra. Se, invece, le giornate passano nel silenzio o nella “micro-comunicazione” dei rapporti domestici, non c'è nulla di cui stupirsi se chi cresce in questo contesto di deprivazione linguistica non abbia un patrimonio proprio. Non dimentichiamo che l'alfabetizzazione di massa è arrivata solo di recente, in tutta la cultura Occidentale, dopo secoli, anzi mi vien da dire millenni, in cui la cultura (fiabe, proverbi, racconti, canzoni, preghiere...) è stata trasmessa oralmente. Oggi pare che l'unica via per potenziare la lingua sia la lettura. Certo, leggere libri è fondamentale, essenziale, irrinunciabile, ma forse parlare un paio di ore alla settimana con i propri genitori e i propri nonni è ancora più necessario, perché, oltre all'esercizio linguistico, si pratica un bell'esercizio affettivo!

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