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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Primo piano
L’intervista a Carlo D’Amicis
Sabato 25 giugno protagonista dell’appuntamento preserale del Piccolo Festival l’autore de La battuta perfetta
Pubblicato il 26-06-2011
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Nella sua seconda giornata l’appuntamento preserale del Piccolo Festival ha portato a Bassano Carlo D’Amicis. Intervistato sul palco del Bonaguro da Mattia Pontarollo di Palomar, lo scrittore di origine pugliese, da anni vive a Roma, ha presentato i suoi romanzi La guerra dei cafoni, rientrato nella selezione dello Strega nel 2008, e l’ultimo La battuta perfetta, per il quale gli è stato recentemente assegnato in Toscana il premio “Parole d’Autore”, un riconoscimento dedicato agli scrittori di opere in cui è presente una particolare attenzione alla lingua italiana e alla sua capacità di rinnovarsi.
Protagonista del tuo ultimo romanzo è il ruolo della televisione nell’attuare una rivoluzione epocale, e culturale, nella società italiana. Ricordi all’inizio che l’idolo del padre di Canio era il Maestro Manzi, ma accanto a questa attrice principale c’è un comprimario importante, il potere dell’umorismo, il potere della leggerezza

Carlo D'Amicis e Mattia Pontarollo all'incontro del Piccolo Festival
Sì, mi è sempre interessato molto il tema della comicità come forma di seduzione. Nel romanzo racconto il periodo in cui l’avvento della televisione, la sua comparsa e diffusione nelle case italiane, ha davvero tracciato uno spartiacque con il passato, Il mondo è diventato improvvisamente ridotto in bianco e nero, compresso nei 4:3 di schermi bombati e accessibile a tutti, e il nuovo occhio entrato in salotto e nei luoghi pubblici ha visto per qualche istante un’Italia che non c’è più, che è stata colonizzata e bonificata dalla televisione.
Quello che diventerà il barzellettiere di Berlusconi, e che possiede il passepartout d’accesso alle stanze del potere in realtà compie uno sgarro rispetto a chi con fatica cerca le chiavi della cultura, della formazione, come faceva il padre di Canio, e che però le rendeva infeconde, schiuditrici di porte pedagogiche sul nulla. La risata e soprattutto il suo potere di contagio hanno invece la capacità di portare al di là
La magia del riso e del ridere insieme, la risata come soffio di Dio, e che per dirla con Freud è uno svelamento dell’inconscio, è rivelatrice in una forma tutta umana della volontà di conquistare la felicità. La comicità ha in sé un’ambiguità interessante, è insieme innovativa e conservatrice, il giullare che fa ridere tutta la corte rompe gli schemi, diventa importante anche se viene dal popolo; la sua antitesi, o la sua complementarietà, è la forza del pianto.
La potenza del contagio della risata, un moto che aggrega, che forzatamente associa, è enorme, qui nel libro la comicità, le barzellette, la ricerca della battuta perfetta sono usate da Canio, spesso anche senza etica, per ottenere un consenso senza il quale non può vivere. Nella realtà italiana è una chiave usata dal potere, incarnato nella figura di Berlusconi. Lui è una sorta di mostro naturale, e la sua naturalità è l’aspetto interessante, è bene fare i conti con l’appartenenza di questo carattere al dna degli italiani, è questo fattore in cui si sono riconosciuti che gli ha rinnovato a lungo il consenso di un popolo.
Nel tuo romanzo si legge ovunque l’urgenza di piacere, che si traduce oggi per molti con il sogno di apparire al centro del fascio di luce catodica, il piacere di “farsele tutte o tutti” è poi un’altra storia: questo bisogno continuo di specchi dice che l’italiano non ha un’identità sua, che la vede solo nei riflessi?
L’Italia è un Paese che tende al riconoscimento, il nostro è un popolo che ha bisogno dell’altro per la costruzione del proprio Io, c’è in tutti un enorme il bisogno di consenso. In realtà noi oggi ci muoviamo in un modo di precarietà, “liquido” direbbe qualcuno, dove è difficile costruirsi e riconoscersi addosso un’identità: i nostri padri ad esempio, pur vivendo in un mondo con meno mezzi, avevano ben chiari quali erano la loro fede, i loro ideali politici, il loro mondo valoriale, un sistema complesso pur magari denso di dogmi e di contraddizioni, ma certo, riconoscibile. Se interrogassero noi ora sulle stesse domande non avremmo risposte così pronte, la nostra immagine nello specchio è un riflesso debole, che ha bisogno per essere percepito di una somma di altri sguardi. Che adesso gli specchi coincidano con i monitor e le telecamere lo si vede chiaramente in tanta tv. Il fallimento del modello verticale incarnato nel libro dal padre di Canio, il funzionario Rai Filippo Spinato, uno che difendeva con rispetto l’esistente come se già tutto fosse giunto all’età dell’oro e così facendo lo rendeva immobile, un modello che tendeva pericolosamente anche al occultamento, ha portato alla reazione opposta, a una sbracatura dei costumi. Io spero che ci sia in un futuro prossimo la possibilità di una sintesi di questi ultimi sessantanni del Paese, la sua immagine nel libro la lascio volutamente abbozzata nella figura di Silvio II, il figlio di Canio e il figlio di un’epoca di sbandamento che vuole rimettersi in carreggiata.
Le donne importanti del libro (la madre di Canio, Graziella) sembrano invece fuori dai progetti di costruzione, loro un’identità ce l’hanno, si muovono forse di più con l’obiettivo di corrispondere alla loro natura che con il desiderio di cercarla altrove
Le donne del romanzo, compresa anche la moglie di Canio, sono capaci di slanci affettivi veri, sono portatrici di una loro naturalità, che è anche istinto, che le fa muovere in un altro campo forse irraggiungibile per l’uomo, che è coincidente con la potenza creatrice del femminino, loro sono la parte sana del racconto. Nelle donne pulsa sempre qualcosa di vero, di diretto, che può essere una guida, se non una lezione per gli uomini. In un altro romanzo che ho scritto Escluso il cane – e senza pericolose trasposizioni di nesso – rendo omaggio alla parte di animalità-naturalità che fa essere altro: esseri che sanno pervenire alle essenze, che hanno accesso a questo mondo prezioso di vita senza necessità di rappresentazioni. Le due donne che dicevi tu, la madre e la donna che potrebbe essere l’amore, sono anche loro nella storia dei personaggi sconfitti. Nessuno in realtà nel romanzo è un personaggio felice nel modo in cui è, c’è in tutti e sempre la ricerca di un compromesso da scontare.
La televisione pubblica di oggi sembra più votata al lamento che al riso, e ha abdicato quasi del tutto alla sua funzione di servizio culturale. Meglio ascoltare la radio, o aprire un libro?
In realtà non guardo molto la tv. La televisione ha proprio nella sua matrice l’impossibilità di essere “buona tv”, tende in qualche modo alla frivolezza per costituzione, e a coltivare la parte di sé più sciocca, da qui certe derive, ma appunto per questo, se la facessi io – e perché è sempre interessante invertire la marcia rispetto a pre-disposizioni, a binari che tracciano percorsi senza possibilità di deragliamento – mi piacerebbe farla tornare a ridiventare buona, educatrice, utile.
Il Piccolo Festival ha proposto quest’anno un esercizio di memoria storica letteraria, e invitato i lettori a racchiudere in un elenco i libri che ci hanno resi più italiani. Qualche titolo che aiuti a suddividere in capitoli il 150°, un contributo per il 15x10?
Nella mia lista inizio dai libri che vengono dall’‘800, Cuore di Edmondo De Amicis, per la sua capacità di raccontare l’Italia verticale di quegli anni e poi Pinocchio il capolavoro di Carlo (Lorenzini) Collodi; poi Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un libro che ho molto apprezzato per la sua attualità; Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa; Il podere di Federigo Tozzi; pensando che nel secolo passato ci sono state due guerre mondiali scelgo anche Rubè di Giuseppe Antonio Borgese; Una vita violenta e Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini; un bellissimo racconto di Ennio Flaiano Un marziano a Roma; Gomorra di Roberto Saviano; Il contagio di Walter Siti; Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia.
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