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Quando una serie è più efficace della realtà
Villa Filanda Antonini, a Villorba, ospita da oggi “Il suo buio Speciale”. Un’esplorazione del Veneto contemporaneo attraverso le immagini, i volti e le parole di tredici veneti illustri.
Tra i profili che hanno scandagliato il “nuovo” Veneto da diversi punti di vista, dalla genetica all’arte, fino alla cucina, c’è anche la giornalista investigativa bassanese Alessia Cerantola. Laureata in Lingue e Civiltà orientali a Venezia, fino al 2019 ha lavorato per Report, il programma di Rai3.
Nel 2015 ha collaborato ai Panama Papers, una delle più famose inchieste globali contemporanee sull’evasione fiscale condotta dal consorzio ICIJ, l’International Consortium of Investigative Journalists. Proprio da Bassano si è occupata della parte giapponese dei dati contenuti nel gigantesco database: 11,5 milioni di documenti super confidenziali derivanti dalla decennale attività dello studio legale panamense Mossack e Fonseca.

Alessia Cerantola
«Da quest’anno sono coordinating editor per il consorzio di giornalisti d’inchiesta internazionale OCCRP, l’Organized Crime and Corruption Reporting Project. Prima ero inviata per la stessa organizzazione e mi occupavo di inchieste giornalistiche sulle multinazionali del tabacco».
Come sei arrivata al giornalismo investigativo?
«All’inizio del mio percorso giornalistico mi sono occupata di Giappone, lavorando prima per il settimanale Internazionale e poi per il Sole 24 Ore e la Repubblica. Negli anni in cui stavo seguendo le conseguenze dello tsunami e la crisi nucleare in Giappone a Fukushima ho avuto l’occasione di incontrare alcuni giornalisti che si occupavano di questi temi da un punto di vista del tutto diverso».
Poi è arrivata la BBC World Service.
«Sì, come corrispondente radiofonica. Ho imparato che cosa volesse dire fare giornalismo con i dati, lavorare in squadra per fare un servizio, possibilmente con colleghi specializzati in altre discipline (video, ingegneria, scienza, narrazione). Un mondo diverso dal giornalismo tradizionale dove si può lavorare per mesi, se non anni, per indagare fenomeni che non sono visibili ad un primo sguardo, ad una prima intervista. Nel 2011 con un gruppo di giornalisti abbiamo dato inizio al primo centro di giornalismo indipendente del suo genere in Italia, l’IRPI, Investigative Reporting Project Italy».
Hai avuto un ruolo importante nell’avventura più nota del giornalismo investigativo recente, i Panama Papers. Ci racconti il tuo lavoro?
«È stato un lavoro lungo e meticoloso, nuovo, perché non l’avevo mai fatto prima, e con metodi di ricerca e verifica da imparare e applicare per l’occasione. Trovati i nomi, bisognava ricostruire le storie dietro ciascuna di quelle transazioni, grazie ad interviste, documenti presenti nei registri d’impresa o in carte giudiziarie, usando insomma anche il giornalismo tradizionale».
Qual è stato il tuo impatto con i Panama?
«Ciascun giornalista aveva a disposizione tutto il database di informazioni, ma cercava di occuparsi dell’area di competenza assegnata. Nel mio caso si trattava soprattutto del Giappone. C’erano nel database anche nomi di persone locali ma non particolarmente rilevanti ai fini dell’interesse pubblico. Si possono ancora trovare nella pagina Offshoreleaks di ICIJ. Ogni giornalista ha agito con piena indipendenza editoriale. Nel mio caso, quello che cercavo erano soprattutto delle tendenze: perché questa o quella categoria di persone si sono servite dei servizi dello studio Mossack e Fonseca a Panama per creare società in paradisi fiscali? Perché proprio in quel momento storico?».
Che precauzioni hai usato per la sicurezza del tuo lavoro?
«Tutte le comunicazioni avvenivano in modo criptato e il consorzio ICIJ aveva creato una piattaforma di comunicazione in cui i quasi quattrocento giornalisti che hanno preso parte all’inchiesta collaboravano. Una sorta di social media solo per noi, in cui scambiavamo informazioni e documenti. Ci davamo una mano quando le nostre indagini finivano in Paesi di cui non conoscevamo la lingua o il sistema giudiziario. Il tutto è stato fatto da molti, da me inclusa, da remoto».
Quando hai capito che stavi lavorando ad un progetto “esplosivo”?
«Ero talmente presa da una parte del progetto, quella che più mi riguardava, che non mi sono resa subito conto della portata internazionale. Quando ho visto i colleghi anticipare nei social media l’uscita del progetto ho capito che avrebbe avuto un forte impatto in tutto il mondo, non solo per il contenuto e le rivelazioni ma anche per il modo di fare giornalismo investigativo».
C’è qualche dinamica oscura della grande finanza globale che i Papers hanno contribuito a chiarirti?
«Sicuramente hanno chiarito molte dinamiche che portano all’apertura di conti e società in paradisi fiscali».
Dopo i Panama Papers ti sei occupata di tabacco.
«Per OCCRP mi sono occupata di inchieste sulle multinazionali del tabacco per tre anni. Per essere chiari, non abbiamo dato alcun giudizio su fumatori o non fumatori, il nostro lavoro voleva solo mettere in evidenza casi di corruzione o di strategie usate dalle grandi delle sigarette per vendere i loro prodotti, vecchi e nuovi».
E sul “retrobottega” del mondo del tabacco cosa hai scoperto?
«Abbiamo lavorato principalmente su un progetto d’inchiesta relativo ai nuovi prodotti a tabacco riscaldato. Poi sull’avanzata delle sigarette cinesi anche in Italia. Per il primo progetto abbiamo collaborato con il programma di Rai3, Report, che ha realizzato il servizio “La cortina di fumo”».
Senza il giornalismo investigativo indipendente, i lettori e gli elettori di mezzo mondo cosa si sarebbero persi negli ultimi anni?
«Il giornalismo investigativo occupa uno spazio nell’ecosistema dell’informazione assieme a tutti gli altri generi. Non esisterebbe senza la notizia di cronaca o il reportage. Solo negli ultimi anni le inchieste hanno portato alla luce frodi fiscali di ogni tipo, fondi pubblici usati portati all’estero da politici in paradisi fiscali, hanno rivelato come pazienti siano stati uccisi da protesi velenose o difettose o hanno portato alla luce criminali seriali».
Nell’economia italiana, quali sono i comparti che rischiano prima o dopo di finire sotto la lente dei giornalisti investigativi?
«Di sicuro rischia il settore immobiliare. Ma c’è spesso anche il mondo dello sport, soprattutto del calcio, o quello delle energie rinnovabili e dei fondi provenienti dall’Unione Europea. La concentrazione di denaro attrae ovviamente l’attenzione dei gruppi criminali».
Di fronte a quale rischio anche un giornalista investigativo si ferma?
«I rischi sono soprattutto online e poi fisici. Il grande lavoro che cercano di fare le organizzazioni con OCCRP è quello di preparare i giornalisti a prevenire attacchi sia fisici sia telematici con corsi e aggiornamenti. È sempre un lavoro di delicato equilibrio. E non sempre va a buon fine».
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