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Luigi Marcadella
Giornalista
Bassanonet.it
Esclusivo
Autonomia che tutte le competenze si porta via
Intervista alla senatrice vicentina Erika Stefani
Pubblicato il 06-01-2023
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Ancora non si conoscono i dettagli del testo della bozza di riforma sull’autonomia predisposta dal Ministro Roberto Calderoli.
È depositata a Palazzo Chigi, a disposizione del governo presieduto da Giorgia Meloni.
L’argomento è politicamente scottante, già durante l’esecutivo Conte I (Lega + Movimento 5 Stelle) sembrava che il progetto di riforma autonomista fosse a portata di mano, si doveva chiudere la pratica da un giorno all’altro.
Erika Stefani, vicentina di Trissino, avvocato, senatrice per la terza legislatura consecutiva della Lega
Cinque anni fa il dossier era nelle mani della vicentina Erika Stefani, all’epoca ministro per gli Affari regionale e le Autonomie.
Sono passati tre governi e a distanza di quasi cinque anni siamo tornati al punto di partenza, o quasi.
Senatrice Stefani, immagino che qualche informazione sul testo Calderoli sia filtrata. Quali sono i punti fondamentali?
«Sento fin da subito di dire che non vi sono tanti modi per attuare il regionalismo differenziato. La sostanza in realtà è sempre la medesima. Mi spiego: i punti fondamentali sono già nella Costituzione e nelle prerogative del Governo e del Parlamento. Quello che farà la norma è dare un ordine a tutte le azioni che si devono fare per fornire risposta ad una legittima richiesta di un popolo espressa da un referendum storico».
Ci sono differenze significative con il testo che lei aveva predisposto quando era ministro?
«Fondamentalmente avevo proposto di procedere subito alla stipula di una intesa fra Stato e Regione, in cui ci sarebbe stata una parte generale comune ad ogni regione ed una parte speciale contenente tutte le singole materie attribuite in via esclusiva alla regione. Nella parte generale si disciplinava il procedimento ed i passaggi da mettersi in atto, fra cui quello inerente la parte economica relativa al meccanismo per il trasferimento delle risorse alla Regione. Insomma quelle questioni che oggi il Ministro Calderoli intende disciplinare in una separata legge: ovviamente il disegno di legge di cui si tratta tiene conto dell’ampio dibattito che nel frattempo si è tenuto».
In una nostra intervista del 2019, proprio sul tema dell’autonomia, mi disse che lei è “ottimista per natura ma questa contrarietà ideologica all’autonomia è completamente illogica. È davvero difficile combattere i preconcetti”. Il clima politico è cambiato?
«I preconcetti sono impossibili da abbattere, soprattutto finché c’è qualcuno che per varie ragioni (non sempre edificanti) li vuole conservare a vantaggio della propria posizione».
Ma chi sono i nemici dell’autonomia?
«La più grande nemica è l’ignoranza: quante volte mi sono incontrata con fermi oppositori e di fronte alle ragioni che avevo illustrato non potevano che darmi ragione. Per poi uscire dalla porta dell’ufficio ed ancora insistere a parlare di una autonomia lesiva dei diritti dei cittadini ed altre amenità. Purtroppo certa politica, che per me non ha nemmeno la dignità di essere chiamata tale, gioca sulla ignoranza ed anzi la alimenta. Un po’ come uno scadente palinsesto televisivo che si pensa sia quello che piace alla gente: se alle persone invece proponi programmi interessanti, di cultura e arricchenti forse anche le stesse persone si interessano, si acculturano e si arricchiscono di contenuti».
Oltre alle categorie dello spirito, ci sarà una categoria politica che non vuole una nuova riforma in senso autonomista.
«Certamente, se qualche politico continua a dire ai cittadini delle Regioni del Sud che il regionalismo differenziato li danneggia e continua a far leva su una società che spesso lamenta servizi pubblici scadenti, occasioni di lavoro minime e magari amministrazioni non all’altezza, e non spieghi cosa sia davvero l’autonomia, tu fai del male a quella gente, a quel territorio e a quella società e non fornisci gli strumenti per esprimere una opinione».
Nel Conte I, l’autonomia richiesta dalla Lega era parte del contratto di governo. Ora rientra in una trattativa politica più ampia a livello governativo: Fratelli d’Italia sembra disponibile in linea di massima ma vuole in cambio il via libera al presidenzialismo. Non è una situazione ancora più complicata del 2018-2019?
«Mi pare che in ogni tornata ci siano delle complicazioni. Non so il motivo per cui il Movimento Cinque Stelle non aveva voluto dare seguito ad un accordo di governo che contemplava la attuazione dell’art. 116 secondo comma Costituzione. Forse avevano scoperto che noi della Lega volevamo vere ulteriori condizioni di autonomia alle regioni e non magari un mero manifesto propagandistico privo di contenuto giusto per “gabbare” i nostri cittadini. Per attuare il regionalismo differenziato occorre grande coraggio politico perché è una riforma istituzionale (non costituzionale, ma istituzionale) notevole ed importante. Oggi abbiamo un Governo dove siedono forze politiche che hanno sperimentato l’alleanza anche in altri contesti».
In ogni caso Fratelli d’Italia ha una solida base elettorale anche al Sud, dove compete con il consenso dei 5 Stelle. La battaglia politica è già pronta: le opposizioni la chiamano già la “secessione dei ricchi”. Penalizzerà qualcuno il testo che vuole la Lega?
«Il testo che vuole la Lega è scritto nella Costituzione. La battaglia si farà perché per alcuni è facile giocare solo su slogan per recuperare un consenso perduto. Fratelli d’Italia non dovrà cadere nell’errore di rincorrere il consenso, ma dovrà invece condividere il nostro progetto sul regionalismo differenziato che darà al Sud un cambio di passo vero».
Perché le opposizioni sono preoccupate per come verranno modificati i criteri dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep)?
«Anche su questo tema si continua veramente a mettere il carro davanti ai buoi e a giocare con le parole senza focalizzare è il tema. In realtà, la preoccupazione è che la attribuzione di alcune competenze ulteriori ad alcune Regioni vada a ledere i diritti dei cittadini di altre. Non è così. Premetto che i leps ci sono già in alcune materie nel nostro ordinamento. Ve ne sono altri da determinare ed è corretto che questo si faccia, ma quando si determinano i fabbisogni standard già abbiamo individuato un parametro importantissimo e fondamentale che non può essere fatto per una sola Regione, ma per tutte. Ivi comprese quelle del Sud».
Sarà una battaglia tra governatori del Nord contro governatori del Sud?
«I fabbisogni standard sono connessi ai costi standard. Quella è la preoccupazione di certa politica degli amministratori locali di alcune Regioni: temono di perdere magari una spesa storica, magari mal gestita e che non torna in termini di veri servizi ai cittadini».
Le rifaccio la stessa domanda di quando era ministro delle Autonomie: in Veneto le aspettative erano – e lo sono ancora forse – altissime. Che messaggio si sente di dare agli elettori veneti?
«Ormai non dico più nulla. A metà febbraio del 2019 ero veramente convinta che avrei portato le bozze di intesa per Veneto, Lombardia e Emilia Romagna in Consiglio dei Ministri e poi tutto si è schiantato contro un muro dentro al Governo. Dobbiamo solo e sempre tenere alta la attenzione e non lasciare che mai si dimentichi il nostro referendum, la nostra identità, le nostre battaglie».
Solo uno Stato forte può permettersi uno Stato federale, o uno Stato con autonomie regionali molto rilevanti, altrimenti è il caos. Dopo il Covid, dopo due anni di lacerazioni profonde nel tessuto sociale ed economico del Paese, si può dire che oggi l’Italia è uno Stato forte? Intendo ovviamente dal punto di vista del sistema politico e dei contrappesi istituzionali, centrali e locali.
«L’emergenza sanitaria ha dimostrato un grande assunto: il sistema sanitario regionale ha vinto, checché se ne dica. Abbiamo dimostrato che occorre avere amministratori locali sapienti e capaci ed il regionalismo differenziato concede a questi di poter esprimere le proprie capacità o anche le proprie incapacità, lasciando in questo ultimo caso la parola agli elettori che possono decidere chi confermare e chi no. Abbiamo dimostrato che abbiamo bisogno di una politica più capace, non alimentata dalla semplice antipolitica, che è l’anticamera dell’anarchia o peggio della dittatura».
Non sempre gli elettori, anche quei milioni di veneti che hanno votato con grande convinzione al referendum, hanno ben chiaro cosa porterebbe di fatto una maggiore autonomia. L’argomento è complesso e spesso come avviene per le questioni importanti lo si vede bianco o nero. Cosa cambierebbe concretamente per i veneti?
«I Veneti potranno vedere attribuite alla Regione competenze ulteriori che daranno la possibilità di adeguare le norme, le procedure amministrative, le risorse al nostro territorio, con le sue particolarità con le sue eccellenze ed anche con le sue debolezze. Non arriveranno mancette o prebende nelle tasche dei cittadini, non si parla di denari a pioggia senza progetti, ma un servizio pubblico migliore permette ad un cittadino di avere una spesa personale inferiore, permette di aver un contesto territoriale migliore, un contesto che gli permetta di credere nel futuro e nel proprio lavoro».
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