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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Obbligo o verità? Quando il dolore resta "Dentro"
Al Castello degli Ezzelini, Giuliana Musso ha messo in scena in anteprima per Operaestate Festival il suo nuovo lavoro
Pubblicato il 26-08-2020
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Il palcoscenico del Teatro “Tito Gobbi” ha ospitato ieri sera, martedì 25 agosto, il nuovo lavoro di Giuliana Musso, intitolato Dentro. Una storia vera. Prodotto da Corte Ospitale e coprodotto da Operaestate, in anteprima rispetto al debutto il 18 settembre alla Biennale del Teatro di Venezia, lo spettacolo mette in scena uno spaccato scomodo, disturbante, che guarda senza reticenza agli abusi familiari e alla loro censura.
Scritta e diretta da Giuliana Musso, sul palco con Elsa Bossi, quest’ultima a interpretare Roberta, un’interlocutrice che snoda e riannoda come Penelope i fili del dramma, cioè l’incesto vissuto per anni dalla figlia, questa storia vera guarda negli occhi da “dentro” un tabù infranto di quelli ancestrali e persino indicibili, tanto è l’orrore che figliano. L’incontro con una donna e la sua storia segreta marchiata di misfatto dà origine a una scelta, quella del mettere sulla scena pubblica, in teatro, il delitto dell’abuso di un padre sulla sua bambina sperando che serva, che la verità detta senza nascondimenti sia sempre utile, spuntate e piegate tutte le armi civilmente lecite per punire un certo genere di mostri, in questo come in molti altri casi.
Sul palco solo 12 sedie rosse, a evocare di volta in volta una giuria, l’assenza colpevole o innocente di altri occupanti, il disordine mentale e il caos sospeso della casa ferita, irta di spine invece che protettrice, dove si è consumata la tragedia, ma è richiamata alla memoria anche una notte trascorsa in un camper, in “famiglia”. Il dialogo tra Giuliana e Roberta si snoda per capitoli, in solitudine e nel dolore. Il protagonista accusato non c’è, e comunque quando c’era negava; dalle dichiarazioni rilasciate a un’assistente sociale che gli ha fatto l’unica domanda che serviva fare, fuori dai denti, sembra che non ricordasse quello che faceva. Il non detto, oltre a lui, è il cattivo di questa storia che ha avuto come personaggi una madre-Pollyanna, un padre Ironman e una vittima sacrificale: Chiara. A un tratto si sente la sua voce di bimba canticchiare con un’energia strana, del tutto vitale: ma si è già con lei alla deriva nella tempesta. Non può essere altrimenti, “dentro” le parole della madre si assiste impotenti a una stortura di quelle che non si raddrizzerà, niente sarà più normale. I dialoghi informano di quanto le ha fatto il padre stupratore, di quello che le ha fatto la madre non accorgendosi di nulla, e di quello che non ha fatto una pletora di terapeuti, consulenti, educatori, medici, assistenti sociali, avvocati — non sforzandosi troppo di far uscire quelle precise parole, perché nessuno, se può e se riesce, vuole guardare negli occhi l’orrore.
Giuliana Musso e Elsa Bossi (foto di Adriano Ferrara)
Lui, il padre, è innocente fino a prova contraria, e il caso è stato archiviato, la prova non si è voluta trovare, e il segreto in parte svelato lotta per rimanere segreto e non detto, come se questo potesse aiutare. La disperazione messa in scena dalla “madre” è autentica, l’attrice che la interpreta la porta addosso con tutto il carico di sensi di colpa che la piega e la fa schiumare di rabbia. Eppure il suo rincrescimento non ci basta. Quando Roberta fa capire di avere avuto una madre anaffettiva, una donna dai gesti violenti, quasi a fornire una chiave per capire qualcos’altro di vago su di lei, viene spontaneo affievolire il credito al suo racconto invece che aumentarlo: non si cercano scusanti da accreditare, perché cominciando a trovare giustificazioni che affondano le radici nell’inconscio sarà automatico accordare qualcosa che assomiglia a un’attenuante anche a lui, e fa schifo. La Musso nomina Freud e la sua teoria sulla seduzione infantile e se servisse ingarbugliare e rendere più viscida la ragnatela ci sarebbe un altro secolo e qualche decennio di teorie sulla sessualità da tirare in ballo. Il fatto, incontrovertibile, è la violenza sessuale di un padre sulla sua bambina. È arido e scarno ma è il fatto, di questo una società civile fondata sulla famiglia dovrebbe rendere conto prima di tutto a lei. Giuliana si chiede e chiede ad alta voce come questa donna possa non spezzarsi e impazzire sotto un peso del genere; la certezza di non aver visto e capito abbastanza fa vacillare ogni sforzo di ragionevolezza.
La richiesta di portare in teatro questa brutta storia, in un momento in cui il teatro di denuncia, tanto più il teatro politico, non vive la sua alta stagione, è un atto bello e antico: Roberta, ora potendolo, cerca l’agorà.
La platea ha applaudito lungamente, ha apprezzato e per qualche attimo ha di sicuro condiviso. Per rendere più efficace un’operazione che indaga i meccanismi di censura dell’abuso servirebbe forse un controcanto: l’arte della scrittura, come quella del teatro, permette di esplorare molto da vicino certe zone d’ombra — Polly e Rape me sono due facce della stessa medaglia da guardare entrambe con attenzione. La lotta al silenzio criminale che si incista in certe famiglie e dintorni non può essere solo un affare di donne.
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