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Quando una serie è più efficace della realtà
Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
Primo piano
Modalità lettura - n.22
Una sconosciuta moralità, di Giuseppe Marcenaro. Una recensione di Marco Cavalli
Pubblicato il 20-08-2017
Visto 3.761 volte
Estati di fuoco. Improvvisamente, un’estate a Bruxelles… Nel libro che Giuseppe Marcenaro dedica alla storia di Verlaine e Rimbaud e al fattaccio brutto che accadde all’Hôtel à la Ville de Courtrai anche gli atti del processo, la tessera d’iscrizione di Rimbaud alla British Library, un mazzo di fiori di Fantin-Latour hanno tanto da raccontare. Il titolo stesso è preso da un arido verbale di interrogatorio.
Una recensione del critico letterario Marco Cavalli inviata appositamente per Modalità lettura. La Redazione ringrazia.

dal film Poeti dall'inferno di Agnieszka Holland (1995)
Quando si parla di amori maledetti la storia tra Arthur Rimbaud (1854-1891) e Paul Verlaine (1844-1896) è la prima che viene in mente. A distanza di oltre un secolo (la storia ha inizio nel 1872), Giuseppe Marcenaro le dedica un libro appassionante e documentatissimo: Una sconosciuta moralità. Quando Verlaine sparò a Rimbaud (Bompiani 2013, pp. 372, euro 12).
Se i benpensanti mettono a marinare l’amore nella salamoia del rapporto di coppia istituzionalizzato, l’amore tra i due poeti, maleodorante, ingovernabile, ha la meglio sulla sua inclinazione a raffreddarsi, ad agghindare se stesso. Manda in frantumi ogni regola nota dell’amore allorché si solidifica in un ménage, ancorché sinistrato. Legame affettivo ma non affettuoso, passa dal gesto quasi criminale a una solidarietà spericolata, a tutto campo, battendo sulla nostra finestra morale come se cercasse di infrangerla e fare irruzione. Estraneo a calcoli e a previdenze, vive sul flusso adrenalinico dell’incertezza e dell’incompatibilità di età, appetiti, caratteri.
Verlaine, che fa in fretta a sentirsi rifiutato, alterna una devozione canina a raptus di sospetto paranoico. Rimbaud, sul crinale dell’insensibilità, scruta tra il sarcastico e l’ammirato quest’uomo più maturo di lui, questo intelletto più robusto del suo, giocarsi famiglia, reputazione e credibilità in un unico giro di ruota, perdere, ringraziare e sorridere di fronte alla ghigliottina della scomunica sociale che si abbatte su di lui.
Rimbaud e Verlaine sono consapevoli che il loro amore non ha avvenire, che è ostaggio di un’aspettativa di vita esigua. Nelle rare occasioni in cui sono felici insieme, non scambiano la felicità per una speranza. Per entrambi il punto massimo di crisi è posto sul davanti invece che sul retro della coscienza. Ritrovandosi ogni volta nella premonizione condivisa della fine, riescono a ritardarla. Tutta la coerenza e la forza del loro amore consistono nell’incredulità, nel rifiuto di consultare l’oracolo: appena lo si consulta, infatti, bisogna per forza crederci un po’. Le incomprensioni, gli screzi, i tradimenti, anche insistiti, non li spingono a desiderare come un’oasi rassicurante uno di quegli amori mediocri che per camminare devono far ricorso alla stampella del suffragio altrui. Con il solito maledetto anticipo, Rimbaud aveva mangiato la foglia: “Non c’è più niente che mi illuda; via libera alla mia sventura”.
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