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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Teatro

Amore, ancòra

Su il sipario, domenica 17 luglio, per la sezione dedicata al teatro di Operaestate Festival al Castello degli Ezzelini con Venere e Adone di Roberto Latini

Pubblicato il 18-07-2022
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Brassaï. L’occhio di Parigi

Su il sipario, metaforicamente parlando, domenica 17 luglio, per la sezione “Teatro” di Operaestate Festival al Castello degli Ezzelini con il primo spettacolo della programmazione 2022, intitolato: Venere e Adone: siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni.
Sul palco della corte medioevale, Roberto Latini, protagonista e autore dell’opera teatrale per la Compagnia Lombardi-Tiezzi, è apparso dal buio indossando una struttura con ali da Amore bruciate, ali di Icaro dal sogno infranto. Il mito di Ovidio che racconta di passione, di caccia, di morte e di rinascita, è stato il tema conduttore della rappresentazione, con le sue variazioni che si sono succedute anticipate da titoli luminosi ricamati a luce laser sulle mura antiche.
Il primo titolo è stato “amore”, ma la prima parola pronunciata sul palcoscenico, arrochita e amplificata dagli effetti sonori che Latini imprime con tecnica e strumentazioni alla sua voce, è stata “lacrime”. Un amore che dall’alba dei tempi, nonostante scorra in terra e in cielo trasportato da fiumi di parole, nonostante letteratura e arte ci provino da millenni, non si sa dire, ancora. Ripete “ancòra” e “ancòra” come un mantra senza potersi fermare la creatura sul palco. “Il sogno di respirare un desiderio”, “il pianto di una nuvola di cigni”: in scena c’è il sogno del tutto umano di benedire/bene-dire un sentimento di valore che opera ladrocini, che tende trappole, che “sa inventare la gelosia”.

Roberto Latini al Castello degli Ezzelini

Amore sulla scena è vecchio e stanco, il suo arco è diventato bastone che lo aiuta a camminare, ma poi d’improvviso imbraccia ancora lo strumento di guerra e scaglia con forza le sue frecce. Alla figura del cinghiale che appartiene al mito è dedicato un altro capitolo, anticipato da fumo di scena che mima l’arrivo del sogno. A parlare con una voce d’uomo, senza amplificazioni, ora è un re storpio di shakespeariana memoria che lancia freccette a un bersaglio che presto diventerà il suo volto in quella che diviene una caricatura di pupazzo, che poi suona a lungo un violino sgraziato tra le fronde dirigendo alla foresta un concerto di parole. “Piango cuori di stracci, sorrisi posticci”: torna il pianto, tornano le lacrime.
Adone-il bello compare nel terzo momento in foggia moderna e dimessa, in un salotto in vestaglia, in secondo piano un giradischi — la musica, suoni e luci, a cura rispettivamente di Gianluca Misiti e Max Mugnai, sono parte integrante della poesia dello spettacolo. L’uomo si mette seduto su un divano gonfiabile di plastica, con davanti una videocamera che lo riprende su di un treppiede; un piccolo schermo a favore del pubblico anticipa il messaggio che sta registrando per un amante che ama poco probabilmente, o già non ama più. Il siparietto che Latini intrattiene mimando la registrazione del messaggio, che ha già l’inutilità scritta tra i caratteri luminosi, con il contorno di affanni tecnici che ben conosciamo (all’inizio disturba il trapano improvvisamente in azione di un vicino di casa, e la registrazione deve essere cancellata e ripartire) provoca in più momenti sorrisi e risolini. Appare chiara e familiare la recita nella recita, il copione noioso pieno di chiacchiere vuote perfettamente atteso, con tanto di lacrime finte, tutto finalizzato a ingraziarsi qualcuno — per cui ringraziare un secchio d’acqua a cui Adone attinge, preparato ai piedi del divano all’occorrenza, e da cui poi, con fare consapevole dell’atto distruttivo che compie, si mette a bere. La comicità qui prevale, ma di riflesso amplifica il tragico.
“Il cinghiale non esiste” è forse la frase più drammatica pronunciata dall’attore. Più tardi sorprende il tuono forte di un temporale che con il Bardo annuncia scrosci e tempesta. I fumogeni continuano a produrre sogni, e tra un cullare di onde di mare e strida amorose di gabbiani appare Latini-Venere mascherato con stracci bianchi. Spinge un carrello della spesa munito di pennacchi. In più parti dello spettacolo l’amore di cui si parla è un amore di madre. “Ecco, è qui”: e ancora le parole per dirlo sbagliano, e ancora è la mancanza prevale. L’amore si cerca o si perde nel traffico dei giorni, mimato sul palco da rumori che parlano di mezzi di locomozione e da tuoni che ricordano rombi di aereo e nell’attualità di giorni di guerra.
Nell’ultima scena, Latini appare col volto bendato con accanto un simpaticissimo cagnolino-robot che si muove a comando. La caccia è diventata tecnologica, e la creaturina non più animale obbedisce e diverte e pare avere un’anima propria. Una metafora dell’unico amore a cui può tendere l’uomo che possa essere fedele e per sempre, quello che si fabbrica lui? Forse, ammesso e non concesso che l’uomo bendato sia questo che sogni e che desideri, e non la sua mancanza.
Uno spettacolo poetico e complesso, con tante citazioni dai classici e riferimenti mutuati alle arti figurative, un’opera teatrale-studio di quelle che avanzano nella mente per prendersi gli applausi soprattutto a posteriori.

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