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Mettersi in gioco

Carlo De Benedetti, ospite ieri alla Libreria Palazzo Roberti con Ilvo Diamanti, nella conversazione e nel suo breve saggio ha tracciato una mappa dell’attualità e del futuro “prossimo” del nostro Paese

Pubblicato il 23-11-2012
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La Libreria Palazzo Roberti ha avuto come ospite ieri, giovedì 22 novembre, Carlo De Benedetti. Da uomo di vaglia dell’imprenditoria italiana, ora impegnato sul fronte dell’editoria e della comunicazione mosso da una passione sempre giovane per il mondo dell’economia e del lavoro – ha lasciato solo di recente il controllo di Cir (Compagnie industriali riunite) – De Benedetti ha dialogato con il sociologo Ilvo Diamanti sui temi del futuro sociale, economico e politico del nostro Paese. La conversazione ha fornito un’analisi chiara e profonda, e per questo politica, dello s(S)tato nazionale in una prospettiva aperta, europea e mondiale. L’occasione dell’incontro pubblico è stata fornita dalla recente uscita del saggio scritto da De Benedetti e pubblicato da Einaudi intitolato Mettersi in gioco, ed è seguita agli inviti a parlare di queste tematiche, dell’attualità e del futuro, agli studenti del Bo di Padova e ai detenuti del carcere patavino.
Lorenza Manfrotto ha aperto l’incontro ringraziando De Benedetti di avere mantenuto la sua promessa (quella di ieri era l’unica presentazione della pubblicazione prevista a livello nazionale in una Libreria, è stato un dono e la testimonianza di affetto di uno zio) e ha introdotto la conversazione leggendo l’incipit del saggio, un passo che faceva richiamo al romanzo di Cormac McCarthy La strada. L’invito ad “andare verso il mare” è stato scelto da Benedetti come metafora chiara per esortare gli italiani a mettersi in viaggio – in gioco, scrive lui – cercando strade nuove, incanalando energie e azioni verso progetti concreti di crescita e di miglioramento collettivo; il viaggio di cui ha parlato con Diamanti non è una solitaria, somiglia più a una cordata che ha come motore l’idea forte di comunità. L’Italia di oggi è un “paese per vecchi” dove l’intero paradigma produttivo nazionale ha prospettive fallimentari squassato com’è dallo spostamento irrevocabile dell'asse mondiale della ricchezza, da vent’anni di mal governo e da un mancato investimento oculato sulle risorse produttive del Paese. La crescita esponenziale delle disuguaglianze, in America come in Italia, è il segno del sicuro declino di una società, un declino probabilmente in parte naturale, fisiologico, ma che assume il decorso di una malattia quando la crisi sociale si accompagna a quella democratica: l’affanno della democrazia rappresentativa e della credibilità della politica è un malaffare comune ad altri Paesi, ma qui da noi ha assunto forme particolarmente acute e degenerative, e ha spalancato le porte a una stagione di successi per il populismo e l’antipolitica.
I fari ben visibili nel buio della crisi indicati da De Benedetti sono questi: l’investimento sui giovani, sull’innovazione, e quindi sull’imprenditorialità, l’informazione, e quindi la costruzione di un’opinione pubblica corretta, e soprattutto il rilancio di una buona politica. Non ci sono in Italia leadership credibili, né figure “da partito” da indicare sicuri e fiduciosi a un elettore come a un osservatore straniero che cerchi degli interlocutori con cui progettare insieme il futuro prossimo dell’Europa: a Monti si deve riconoscenza per il miracolo che ha compiuto di ridare da subito dignità all’Italia in campo internazionale, ma il suo governo ha fatto poco in realtà – De Benedetti si augura che rimanga alla guida del Paese a capo di un governo legittimato dagli elettori, quindi davvero democratico; in Italia manca il sano pragmatismo americano che consente di superare le partigianerie per operare per il bene comune; pochi sono disposti davvero a lasciare le loro posizioni di arroccamento e a investire sui giovani. “Il più grande fattore di innovazione delle nostre economie sarà sempre lo spirito creatore di un uomo o di una donna che, con i propri sogni e la propria volontà vuole migliorare il proprio destino”, ha scritto De Benedetti, che non cade nel tranello del pessimismo alla Spengler, ma, da autentico imprenditore, oppone all’inazione una ricetta antica e sempre buona: quella “del gusto per il lavoro ben fatto”.

Carlo De Benedetti

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