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Sarajevo Forever

30 anni fa gli Accordi di Dayton per la fine della guerra in Bosnia Erzegovina, spunto di un progetto per una cultura di pace presentato in consiglio regionale. 30 anni fa anche lo storico viaggio a Sarajevo di una delegazione da Bassano del Grappa

Pubblicato il 15-04-2025
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Sarajevo Forever.
C’è qualcosa in questa città, soprattutto per chi ha avuto la ventura di andarci in tempi di guerra o come nel mio caso in tempi di pace siglata da pochi giorni, che ti rimane per sempre nell’animo.
È qualcosa di indescrivibile a parole: un misto di presa diretta dell’orrore e di adrenalina della memoria, ma anche di stupore, che non si esaurisce nel corso dei decenni, per gli estremi a cui può arrivare la barbarie umana.

La sede bombardata del quotidiano Oslobođenje, uno dei simboli della guerra a Sarajevo (fonte immagine: sarajevotimes.com)

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario degli Accordi di Pace di Dayton, in Ohio (U.S.A.), stipulati nel novembre 1995 e ratificati quindi a Parigi il 14 dicembre 1995, che posero fine alla guerra in Bosnia Erzegovina.
E la notizia di oggi è quella di un’iniziativa patrocinata dal consiglio regionale del Veneto e presentata questa mattina in conferenza stampa a Palazzo Ferro Fini a Venezia dal presidente Roberto Ciambetti.
Si tratta del progetto culturale “Vicenza - Sarajevo per una Cultura di Pace”, in celebrazione del 30° anniversario degli Accordi di Dayton, con un interessante programma di eventi - tra convegni, presentazioni, mostre fotografiche, spettacoli teatrali e momenti di riflessione - in programma a Vicenza dall’8 al 10 maggio.
Obiettivo del progetto è sensibilizzare il pubblico sulla cultura della pace e del dialogo, coinvolgendo scuole, associazioni e realtà territoriali, attraverso attività artistiche e dibattiti.
In tale ottica, è già avvenuta la creazione di una sezione dedicata alla Bosnia Erzegovina presso la Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, con materiali bibliografici, audiovisivi e documenti sulla guerra civile del 1992 - 1995 e sulla cultura bosniaca.
L’iniziativa è promossa dall’associazione “Insieme per Sarajevo”, in collaborazione con “La Piccionaia - Centro di Produzione Teatrale di Vicenza”, col patrocinio del consiglio regionale e del Comune di Vicenza e il supporto della Biblioteca Civica Bertoliana.

“Quello che presentiamo oggi - ha dichiarato il presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti - è un evento di alto valore culturale che, nell’anniversario degli Accordi di Pace di Dayton, siglati nella lontana base americana di Wright-Patterson, in Ohio, ci invita a riflettere su ciò che la pace realmente rappresenta: non soltanto la fine di un conflitto, ma soprattutto l'inizio di un lungo e complesso cammino verso la riconciliazione e la comprensione reciproca tra popoli."
“Gli Accordi di Dayton del 1995 furono un traguardo decisivo e un punto di svolta per la Bosnia Erzegovina e per l'Europa intera - ha aggiunto -. Firmati da figure come Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović, chiusero una delle pagine più buie e dolorose della nostra storia recente. Oggi, ricordando quegli eventi, non possiamo dimenticare il drammatico assedio di Sarajevo: il più lungo della storia contemporanea, che per 1.425 giorni mise a dura prova la resistenza, la dignità e la forza morale di un'intera popolazione.”
“Proprio questo è il senso più profondo di questo progetto: non un semplice ricordo commemorativo, bensì un impegno concreto, capace di stimolare scambi culturali e sociali tra Italia e Bosnia Erzegovina, coinvolgendo la scuola, il volontariato e le istituzioni - ha proseguito il presidente -. Solo così potremo contribuire davvero alla costruzione di una cultura di pace autentica e duratura, capace di superare diffidenze e divisioni, per abbracciare una collaborazione sempre più intensa e feconda.”
“Vicenza, città da sempre aperta all'incontro tra culture diverse, si fa portavoce di un messaggio chiaro: il dialogo e l'incontro sono sempre più forti della violenza e dell'odio - ha sottolineato Ciambetti -. La nostra responsabilità, come cittadini e istituzioni, è quella di tenere vivo il ricordo, ma anche e soprattutto di continuare a costruire ponti di solidarietà e fratellanza.”

Ma a proposito di trentennali, c’è un invisibile cordone ombelicale che unisce Sarajevo anche a Bassano del Grappa. E anche in questo caso è giusto tenere vivo il ricordo.
Il destino ha infatti voluto che nel 1995, a guerra ancora in corso, arrivasse nella nostra città la dottoressa Esma Čemerlić-Zečević, primario del reparto di Pediatria dell’Ospedale di Sarajevo.
Per uscire dalla Sarajevo assediata dalle forze armate serbo-bosniache e partire verso l’Italia, la dottoressa aveva attraversato il famoso tunnel scavato dai cittadini sotto la pista dell’aeroporto.
A Bassano il primario bosniaco aveva lanciato un appello alla cittadinanza, che venne raccolto da molte persone, per raccogliere aiuti umanitari a favore del suo reparto, stremato dai quattro anni dell’assedio di Sarajevo.
Nella nostra città fu fondata un’associazione proprio allo scopo di coordinare le iniziative di aiuto alla dottoressa e ai piccoli pazienti curati dal suo reparto: si chiamava “Dobro Jutro Sarajevo”, che in croato-serbo vuol dire “Buongiorno Sarajevo”, e ne facevo parte anch’io.
Morale della favola: alla fine del novembre 1995, pochi giorni dopo gli Accordi di Dayton, una delegazione dell’associazione bassanese è partita a bordo di un furgone in direzione di Sarajevo per consegnare gli aiuti umanitari raccolti per la Pediatria dell’Ospedale alla dottoressa Esma Čemerlić-Zečević e i giocattoli ai suoi piccoli pazienti, donati dai loro coetanei bassanesi.
Oltre al vostro umile cronista, di quel gruppo di arditi del Grappa facevano parte, tra gli altri, la docente del Brocchi Enrica Visintainer che di Dobro Jutro era la presidente, il rappresentante del mondo della cooperazione internazionale Giovanni Viale, il sindacalista della Cisl Dario Bizzotto, il mio collega del Gazzettino Bruno Cera, il grande e compianto fotografo Enzo Dalla Pellegrina e l’interprete Liliana Zisa.
A Sarajevo avrei poi realizzato dei reportage per Telealto Veneto e del nostro gruppo faceva parte anche il bravissimo cameraman di Zanè Graziano Roana, con cui ho condiviso anche altre indimenticabili avventure in giro per il mondo.
Gli operatori televisivi sono sempre dei colleghi importanti, a volte - come capirete in seguito - persino per salvare la pelle.
Per raccontare le esperienze che abbiamo vissuto in quei giorni e le immagini di distruzione che abbiamo visto coi nostri occhi a Sarajevo, ma anche a Mostar (oggi gemellata con Bassano del Grappa) e nel resto della Bosnia Erzegovina non basta un articolo, ci vorrebbe un libro.
Soprattutto, la trasferta in quel drammatico ombelico del mondo ci aveva fatto capire quanto il confine tra pace dichiarata e conflitto perdurante fosse ancora molto labile.
La cosiddetta Pace di Dayton, infatti, era stata appena stipulata ma i pericoli non erano ancora terminati.
A Bugojno, nel territorio controllato dai bosniaco-musulmani, ci siamo trovati puntata contro la pistola di un agente della polizia militare; l’operazione Deny Flight della NATO vietava ancora i voli sui cieli bosniaci; per arrivare a Sarajevo abbiamo attraversato il monte Igman perché il corridoio diretto d’ingresso alla città era ancora a rischio di imboscate di milizie impazzite ed era percorribile solamente con la scorta armata dell’ONU e sempre a Sarajevo c’erano ancora i cecchini nascosti tra i palazzi in rovina dello Sniper Alley, il famigerato “viale dei cecchini” che era l’interminabile rettilineo di accesso obbligatorio per entrare in città, da percorrere il più velocemente possibile.
Ma l’istinto di sopravvivenza che scatta immediato e naturale in tali situazioni ha avuto la meglio su tutte le insidie.

Una seconda delegazione di Dobro Jutro Sarajevo, sempre col sottoscritto tra i suoi componenti, è poi tornata nella capitale bosniaca due anni dopo, nel maggio 1997.
Anche qui potrei raccontarvi tante cose, ma mi limito a un episodio cruciale.
Grazie ai contatti del socio di Dobro Jutro Giovanni Viale, che nel frattempo aveva trovato lavoro per una organizzazione di cooperazione internazionale a Sarajevo, questa volta mi era stato affidato come cameraman un militare del contingente italiano della SFOR (Stabilization Force) in Bosnia Erzegovina.
Si chiamava Luigi Marte, detto Gigi. “Sì, Marte, come il pianeta”, mi aveva detto alla nostra presentazione.
Tra gli appuntamenti in programma della nostra delegazione c’era anche una riunione in un quartiere periferico di Sarajevo con i responsabili di una casa di riposo, situata proprio di fronte a uno dei simboli assoluti di quella guerra nel cuore dei Balcani, visto e rivisto in centinaia di telegiornali e sulle foto della stampa di tutto il mondo.
Era il palazzo di Oslobođenje, il quotidiano di Sarajevo: un doppio grattacielo totalmente distrutto dai bombardamenti, dove durante tutto l’assedio i giornalisti hanno continuato a lavorare nei sotterranei, spostandosi poi a pernottare in stabili privati per evitare il rischio di essere colpiti dai cecchini.
Uno dei partecipanti a quella seconda trasferta nella capitale bosniaca era l’allora assessore comunale al Sociale di Bassano del Grappa Fabio Comunello, che dovevo intervistare.
Dalla casa di riposo alla sede bombardata del quotidiano di Sarajevo c’erano circa duecento metri di distanza e per percorrerli c’era solamente da attraversare un campo erboso.
Ho quindi detto all’assessore e al mio operatore televisivo: “Facciamo un’intervista in movimento, camminiamo da qui fino al palazzo di Oslobođenje con il microfono in mano.”
Neanche il tempo di finire la frase che Gigi Marte, l’uomo in divisa mimetica con telecamera, si è messo a urlare: “Fermi! È un campo minato!”.
Lui, che in questa città lungamente dimenticata dal Signore ci viveva tutti i giorni, lo sapeva bene. Noi invece no. Diversamente dalle altre zone minate di Sarajevo, qui non c’era nessun avvertimento, nessun cartello, nessun nastro e nessun divieto di ingresso con la scritta Pazi Mine, “Attenti alle mine”.
Non ho mai capito perché.
È stato quindi grazie ad un angelo custode di nome Gigi Marte, il cameraman soldato che si chiamava come il pianeta, se oggi Fabio Comunello gestisce con successo la Fattoria Sociale Conca d’Oro.
E se io ho potuto raccontarvi questa storia.

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