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Ci sono diversi modi per interpretare un film controverso come The tree of life. Il vincitore a Cannes non è di certo di facile visione, si discosta decisamente dai film che Hollywood sforna o dalla narrativa classica. Ma il suo successo non è dovuto solo alla fama di regista-genio di Terrence Malick (ultima intervista nel 1973, 5 film in 40 anni) perché L’albero della vita è una piccola perla, uno di quei film che ti fanno uscire dalla sala e guardare il mondo in modo diverso.
Esagerato? Non del tutto. La vera forza del film sta nella sua poeticità, nella sua forza espressiva. La fotografia è veramente spettacolare e solo per questa meriterebbe di essere visto in sala.
Ma passiamo alla trama. Il film cerca di raccontare il superamento della morte di un figlio, l’elaborazione del lutto di genitori e fratello (interpretato in età adulta da Sean Penn), non svelando mai cosa gli sia accaduto. Tornando indietro nel tempo si ripercorre quindi l’infanzia e la storia di questa tipica ma allo stesso tempo anomala famiglia americana. Nel profondo conservatorismo degli anni ’50 Brad Pitt è un padre severo e punitivo che cerca in tutti i modi di avere fama e successo. I suoi figli vivono le loro avventure condizionati dai suoi scatti d’ira, dai suoi insegnamenti mentre la figura più riuscita, quella della madre, Jessica Chastain, solare, materna, amica cerca di proteggerli.
La storia, raccontata in tanti piccoli tranche de vie di anni, è però inframezzata da immagini spettacolari, ere geologiche lontane, la natura nel suo splendore, Dio, forse. Lunghi monologhi, lunghi silenzi, un ritmo fluente ma spezzato. Visioni oniriche e simboliche, parole pesanti e significative, ricordi che segnano e formano. Ecco perché The tree of life è così difficile ma così bello. La sua forza torna a risiedere nelle immagini, nelle inquadrature in quello che è l’essenza del cinema: l’occhio e il suo movimento.
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