Laura VicenziLaura Vicenzi
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Modalità lettura - n.8

Rileggere Il Giocatore, con uno sguardo all'attualità

Pubblicato il 02-04-2017
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Se servisse un pretesto per la rilettura di questo romanzo di Dostoevskij, si può guardare all’attualità, alle riflessioni e ai dibattiti promossi in città sul dilagare contagioso del gioco d’azzardo, alle polemiche sull’opinione recentemente espressa sull’argomento da Paolo Crepet, e allo spuntare come funghi di nuovi locali con destinazione d’uso “il giuoco”. C’è poi la constatazione per decreto, non priva di aspetti paradossali, che la ludopatia rientra tra le patologie destinatarie di Livelli Essenziali di Assistenza (i Lea, che definiscono cure e prestazioni garantite ai cittadini gratuitamente o pagando un ticket).

Fëdor Dostoevskij, nel 1886, scrisse Il giocatore in poco meno di un mese, riprendendo una stesura provvisoria abbandonata da anni; lo dettò a una giovane segretaria, Anna Grigor'evna, che diventò in seguito sua moglie. Tanta fretta era dovuta alla necessità di far fronte ai debiti di gioco: Dostoevskij si era impegnato con l’editore Stellovskij a cedergli per nove anni i diritti sulla sua intera opera letteraria, passata e futura, se non avesse prodotto un nuovo libro da dare alle stampe entro il novembre 1866. Un romanzo nel romanzo, dunque. La vicenda narrata, in parte sotto forma diaristica, in parte come “presa diretta”, ha inizio a Roulettenburg. La scena si apre in una città termale tedesca – ribattezzata da acque più solfuree del dovuto – che diventa, gemellata con Parigi più avanti, il crocevia di identità nazionali europee tutte affacciate sullo stesso baratro della dissolvenza.

Se il “francesino” usuraio De Grieux e la femme fatale, la bella arrivista mademoiselle Blanche, rappresentano i fasti della forma francese in decadenza, l’inglese mister Astley, ancorato a terra dall’ombrello del senso morale, è l’uomo da vignetta del fair play; il Generale che non comanda e la nonna-salvadanaio (la baboulinka) che muore-non muore-muore incarnano genio e sregolatezza del popolo russo; sullo sfondo, si muovono in massa Polacchi inaffidabili e schiavi e Tedeschi marchiati a fuoco: «Tutti lavorano come bestie e tutti accumulano soldi come giudei». Anche più inquietante dell’abisso dello Schlangenberg, dove inizia il gioco d’azzardo coi sentimenti di Alekseij e Polina, il Giocatore e la sua Musa protagonisti della non-storia d’amore del romanzo.
Un piccolo mondo tutto “europeo” di fine Ottocento che, non differente da quello attuale, ruota vorticosamente attorno ai numeri, ai soldi, ai desideri, insieme alla pallina bianca della roulette, in cerca di una casella appagante che sfugge, di una “forma” mai posseduta e ambita, o solo perduta nell’incedere veloce di alti e bassi economici, sociali, sentimentali, che travagliano le esistenze.
Dostoevskij descrive con meticolosità, con sapienza, l’ambiente dei tavoli da gioco e i comportamenti dei giocatori, del protagonista come dei personaggi secondari, mai marginali per lo scrittore. Muove Alekseij senza pietà sulle montagne russe che circondano il tappeto verde, e segue con uno sguardo accompagnatore non privo di ironia le impennate, le cadute e i giri della morte generati dalle azioni che compie il giovane in delirio al tavolo da gioco. Il Giocatore, in fondo, è in grado di godere solo del brivido di sfidare la sorte, dello sporgersi sul baratro, è questa la sua dipendenza, e lo dice: «Quel denaro io l'avevo vinto rischiando più che la vita; avevo osato rischiare, e ora ero stato riammesso nel consorzio umano!».
Nessun vincitore nel romanzo, se non lo scrittore.

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