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Haneke aveva già dimostrato quanto la violenza potesse essere feroce. Funny Games era un saggio capolavoro su questo tema, con tanto di sfottò verso il pubblico che all’epoca richiedeva sempre più tensione nei film; Caché rifletteva invece su una realtà divisa in cui il passato e tutto il suo tormento tornavano a galla come riflesso della situazione del Paese mentre La pianista faceva intravedere tutto il torbido che poteva nascere da una storia d’amore, tra sottomissioni e desideri inappagabili ed infine Il nastro bianco con tutta la purezza del suo bianco e nero mostrava una società rigida e ottusa le cui regole avrebbero portato alle conseguenze mondiali che tutti conosciamo e definiamo nazismo.
Con Amour Haneke si spinge oltre, o forse nemmeno si muove, perché quello che ci mostra è la ferocia, la violenza della realtà. Con il suo solito distacco formale, fatto di scene con camera fissa in cui lo spettatore sembra scrutare le abitudini e le giornate dei protagonisti e dei loro ospiti, il regista ci porta nella routine di Anne e Georges, bruscamente interrotta dalla malattia inarrestabile di lei. Il calvario che insieme percorreranno va al di là dell’amore che il titolo professa, è una lunga discesa verso l’inferno di un corpo che non può più vivere per lei e per una persona che non sa più riconoscere per lui. La dedizione e la cura che Georges porta ad Anne, la pazienza con cui l’accudisce nel suo lento cammino verso la morte mostra tutte le sfaccettature dell’animo umano, affrontando le fasi di elaborazioni di un lutto inaccettabile. La negazione, la rabbia e il consenso finale sono trattate in modo del tutto egoistico da parte di Georges, che nel suo precludere il resto del mondo dalla visione della moglie, figlia compresa, sembra far suo tutto il dolore, un egoismo che diventa altruismo, paradossalmente, e che solo alla fine si ricongiungerà con l’amore.
Immergendoci in questa realtà, fatta di concerti, di ricordi e di malattia, soprattutto, Haneke dimostra ancora una volta come questa realtà sia più forte di qualunque invenzione filmica, di qualunque espediente emozionale finora utilizzato per raccontarla. Il suo stile freddo e distante potrà annoiare alcuni (da notare come la musica sia presente solo quando i personaggi la suonano o la ascoltano), ma è necessario per una storia così potente e così vera che colpisce e scuote come poche e viene colmato dalle interpretazioni sublimi di Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Il premio a Cannes per miglior film premia l’intero cast (anche l’intensa Isabelle Huppert, presente in poche scene) ma premia soprattutto un modo di fare film distante dal puro divertissement, che sa scuotere e far discutere e che di certo non può lasciare indifferenti.

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