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Brassaï. L’occhio di Parigi

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Brassaï. L’occhio di Parigi

Laura VicenziLaura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it

Primo piano

Interviste

A tu per tu con Riccardo Maggiolo

Un’intervista all’autore di Giace immobile, il documentario indipendente che ha chiuso, giovedì 5 giugno, la rassegna-cineforum organizzata da Legambiente al Ridotto Remondini

Pubblicato il 09-06-2014
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Brassaï. L’occhio di Parigi

A chiudere la rassegna-cineforum organizzata da Legambiente al Ridotto Remondini è stata la proiezione di un documentario indipendente realizzato dal giovane regista vicentino Riccardo Maggiolo. Giace immobile è un film realizzato senza finanziamenti che circola fuori dai circuiti canonici della distribuzione che racconta per tappe un viaggio oscuro intrapreso tra speculazione edilizia, usura bancaria, miopia politica, fallimenti aziendali, devastanti esondazioni e un enorme, irreversibile, consumo del suolo. Il film denuncia anche il fenomeno della bolla immobiliare che ha coinvolto il nostro Paese, quella che ha portato l’edilizia a rappresentare il primo settore economico in Italia. L’attuale crisi del mercato del mattone indica che c’è uno sgonfiamento del fenomeno che però pare non raffigurare lo scoppio, diversamente a quanto è accaduto recentemente in Spagna.
Tutti i dati, la documentazione raccolta e le interviste che fanno da filo conduttore alla narrazione del film sono consultabili nel sito www.giaceimmobile.com.
“Alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione”: è la frase di Leo Longanesi (celebre intellettuale anticonformista scomparso nel 1957) che campeggia nel sito, un’affermazione di una sconcertante attualità.


Uno dei messaggi inquietanti che lancia il documentario è questo: le nostre case valgono meno di quanto pensiamo. Crede che ci sia consapevolezza da parte di chi abita il territorio di questa bella novità?

No, affatto. E se ne parla molto poco anche in ambienti specialistici. Suppongo che ci sia molta paura a riguardo: un eventuale crollo del settore edilizio e immobiliare avrebbe conseguenze disastrose su tutta l’economia nazionale, dato che il settore ha un ruolo assolutamente centrale. Basti dire che, nonostante la grave crisi che sta subendo, è ancora il maggior settore italiano per indotto e che la metà della ricchezza della nazione è in immobili.

Lei ha dedicato un capitolo importante di Giace immobile al caso di Caldogno, parla delle politiche di sfruttamento del suolo e dell'esondazione del 2010 che ha anche fatto delle vittime. È la sostenibilità il faro che dovrebbe guidare l’evoluzione di un territorio?

Assolutamente. Ma non solo per l’evoluzione di un territorio: per l’economia e la cultura mondiale. L’immobiliare, purtroppo, è solo la punta dell’iceberg. È stato per anni il bene rifugio per eccellenza dell’economia, in una crescita che fino al 2007 sembrava senza fine. La crisi è un segnale che il mercato ci manda: non possiamo più permetterci questo modello economico. La crescita “consumistica” non è sostenibile. Basti dire che, nel 2007, al momento del crollo delle borse nei mercati azionari girava liquidità pari a 7 volte il Pil mondiale. Una ricchezza che continuava a crescere senza freni ma che non era sostenuta da risorse limitate come quelle naturali e il lavoro. Purtroppo, sembra che non abbiamo imparato la lezione: alla crisi abbiamo risposto inondando il mercato di liquidità. Infatti nel 2013 le borse mondiali sono tornate a crescere con percentuali spaventose, a doppia cifra. Ma prima o poi il mercato tornerà a riportarci sulla terra. Fino a che impareremo che dobbiamo tutti vivere con meno; e scopriremo che questo spesso vuol dire vivere meglio.

Il problema degli immobili sfitti è una piaga che colpisce soprattutto i centri storici. Tra le cause del fenomeno si annovera spesso l’istituzione delle Ztl. I dati che ha raccolto lo comprovano?

Quello degli immobili sfitti nei centri storici è un problema generazionale. Si è costruito tanto in periferia e quindi ora, in un eccesso di offerta (abbiamo almeno 4 milioni di case in più rispetto alle famiglie), quelle case in periferia sono le più accessibili per le ristrette possibilità economiche dei giovani. Le nuove famiglie quindi escono dalla casa dei genitori e vanno ad abitare fuori, progressivamente svuotando i nostri centri storici. Ma c’è di più: è proprio il modello di casa fissa che non può più funzionare. In un mercato del lavoro dinamico e globale non c’è più certezza di vivere nello stesso luogo per il resto della vita, e quindi l’immobile diventa un peso e un modello sempre più anacronistico. Per quanto riguarda le Ztl, non ho dati, ma credo francamente che rispetto a queste dinamiche epocali il suo impatto sia minimo. Personalmente le trovo una buona iniziativa, in ottica di cultura di decrescita.

C’è urgenza di una riprogettazione che la cittadinanza affida ai suoi rappresentanti, alle amministrazioni, anche se la fiducia nelle istituzioni che ci governano è minata di continuo. C’è anche una parte di responsabilità che ricade sul singolo, su di tutti, nella deriva che stiamo vivendo?

Certamente. Come ripeto sempre alle proiezioni del mio documentario non è possibile puntare il dito solo contro le banche, gli imprenditori o i politici. È troppo comodo. Il guaio in cui siamo è troppo profondo e grave perché si sia prodotto per colpa di una minoranza. Il fatto è che il modello volgarmente detto “consumistico” ha portato benefici a tutti: chi più, chi meno. In cinquant’anni la nostra ricchezza è aumentata esponenzialmente: quello che una volta era considerato un lusso per privilegiati oggi è un diritto o una cosa di poco valore. In più, siamo passati da 2 a 7 miliardi di persone al mondo. Certo, la ricchezza prodotta spesso non si è ben distribuita: c’è chi ha fatto più il furbo e chi si è arricchito di più, mentre la povertà è sì diminuita, ma rimane grave. Se continuiamo con questa assurda pratica di puntare sempre il dito verso gli altri e mai verso noi stessi non risolveremo nulla. Dobbiamo essere tutti più responsabili; capire che non possiamo più pretendere certi privilegi, anche se tutti dicono che ci sono dovuti. Dobbiamo farlo per le future generazioni, seguendo il principio di responsabilità di Jonas (Hans Jonas, filosofo tedesco, 1903-1993; nel 1979 scrisse il saggio Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, N. d. R). Le future generazioni non sono qui oggi per difendere i loro diritti: dobbiamo farlo noi per loro.

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