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Laura Vicenzi
Giornalista
Bassanonet.it
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Una recensione di Un mondo battuto dal vento, di Jack Kerouac
Pubblicato il 20-09-2020
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Si esce spettinati, in particolar modo riguardo ad alcuni luoghi comuni, da Un mondo battuto dal vento, di Jack Kerouac (Oscar Mondadori 2018, traduzione di Sara Villa, 453 pagine, 16.50 euro). I testi estrapolati dai diari di Kerouac che costituiscono questo volume sono stati selezionati e raccolti dallo storico Douglas Brinkley, che avverte nell’introduzione di avere operato lievi commistioni e di aver eliminato ghirigori, esclamazioni e note a margine, purtroppo. Gli scritti coprono gli anni dal 1947 al 1954, in essi emerge soprattutto il profilo dello scrittore poiché raccontano il periodo che intercorre tra la stesura di La città e la metropoli, il romanzo del 1950 che diede la notorietà a Kerouac, e quella di Sulla strada, seminate nel frattempo le tracce di opere successive.
Poco più che ventenne, nato nello stesso anno di Fenoglio, di Pasolini, a guardare verso Ovest dall’Italia, il giovane uomo che scrive “io” sui suoi taccuini si svela determinato, battagliero, a tratti furioso: il suo obiettivo è riuscire a essere un grande scrittore e raggiungere la fama. Sull’altare gli idoli di Thomas Wolfe, e Mark Twain, ma tra gli altri c’è anche Dostoevskij, che Jack considera “un ambasciatore di Cristo” — dice lui, il “beat” che traduce, stridendo col pensiero comune, con “beato”.
Kerouac legge tantissimo e scrive in modo ossessivo in questi diari. Quasi da contabile, registra puntualmente quante parole è riuscito a produrre ogni giorno: ci sono giorni difficili, dove la fucina arde e brucia per troppo combustibile al fuoco, e giorni perfetti, in cui le rotative vanno a mille, e la lucidità è siderale. «Ho la piena consapevolezza di quanto tempo perdo a “rimuginare” sui fatti mentre la vita continua a infuriare intorno a me», scrive: l’essenza dello scrittore. Eppure molte pagine evocano di sicuro il movimento, oltre che da rotativa anche relazionale e sentimentale, un movimento che è inquietudine di quelle da cavi dell’alta tensione, difficile da ignorare.

Scorrendo le pagine, si può seguire in presa diretta l’educazione letteraria, più ancora che sentimentale, di questo scrittore giovane su cui si è costruita tanta mitologia anche da fumo negli occhi. Gli incontri dall’andamento lisergico con William Burroughs e Allen Ginsberg; le parentesi di vita alla Thoreau, ma soprattutto l’assetto sempre “on the road”, anche dal punto di vista iconico, che si associano a Kerouac fanno a pugni con la determinazione ferrea a cercare di creare un capolavoro. Fermati tra le righe, i trucchi del mestiere inventati dai maestri, scovati rovistando nei loro capolavori ma non solo, poi elenchi di “cose sublimi da imparare” e di espressioni che gli piacciono a cui attingere.
Se nel proprio vagabondaggio si ha la ventura di incontrare e di farsi amico un ideale, un soggetto di ispirazione (per Kerouac fu Neal Cassady, il Dean Moriarty in Sulla strada) e si è diventati in grado di farlo muovere come si desidera in un romanzo, si verifica quel connubio tra finzione e realtà che fa vacillare, il poker d’assi che regala l’immortalità. In realtà, leggendo i diari si verifica con mano che certe voci leggendarie sullo scrittore e la sua operosità “ispirata” si sconfessano da sole, e a proposito di ispirazione si scopre anche che quanto Kerouac voleva riuscire a “dire”, sopra ogni cosa, è rappresentato dallo sguardo verde-prateria di un vecchio incontrato una sera a Butte, un “portatore di quella grande, faticosa, asmatica tristezza”, proprio quella tanto americana che sente anche sua, un incontro che tra l’altro ha cambiato la direzione di Sulla strada, facendone uno dei miti dell’America del dopoguerra. «Sulla strada è il mezzo attraverso cui, quale poeta lirico, profeta laico e artista responsabile della mia personalità (qualsiasi cosa osi produrre nella sua collera) voglio evocare la melodia incredibilmente triste della notte americana». Scrittura e vita, a ritmo di jazz.
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