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Rinascimento in bianco e nero

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Radici

Il primo singhiozzo del sole

Il racconto di Annamaria Marcadella Serraiotto, ispirato da una storia vera, offre una testimonianza preziosa sul passato e un messaggio importante in occasione della "Giornata della memoria". Un contributo che bassanonet è orgoglioso di ospitare

Pubblicato il 29-01-2010
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Rinascimento in bianco e nero

"E’ un po’ strana, ma è una brava ragazza", mormorava di lei la gente della mia città all’inizio.
"Ma perché è strana ? .."
"Mah, forse perché non è delle nostre parti .. E’ ebrea!"

Risiera di San Sabba (foto di Pier Luigi Mora)

Così le donne sussurravano quando Sarah passava per la via principale con fare circospetto e un’ombra sul viso che la chiudeva in se stessa, come se non fosse neppure lì.
La presenza di questa donna, Sarah Sovic, si cominciò a notare qualche tempo dopo la fine della 2° Guerra Mondiale, quando arrivò a casa mia, accolta col preciso compito di aiutare mia madre, già fin da allora di salute cagionevole.
In realtà, venni a sapere più tardi, era mia madre che, su richiesta dei Centri Sociali, avrebbe dovuto aiutare questa profuga, proveniente dalla zona di Trieste e che era stata detenuta per alcuni mesi in un campo di concentramento: la tristemente famosa "Risiera di San Sabba".
Quel complesso di edifici, usato dagli abitanti del luogo per la pilatura del riso, era stato utilizzato dai Nazisti come campo di prigionia provvisorio, sia in funzione dello smistamento dei deportati in Germania o in Polonia, sia per la detenzione ed eliminazione degli ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Non penso che si esageri quando si dice o si legge su documenti miracolosamente pervenuti ai nostri tempi che allora la morte era il bene più desiderato e implorato dai prigionieri.
Sarah era stata catturata e internata là con tutta la famiglia, padre, madre e un fratellino piccolo verso la fine del 1943, in seguito a un rastrellamento che una pattuglia di tedeschi, feroci come i cani che li accompagnavano, avevano compiuto sulle colline del Carso.
E Sarah era l’unica sopravvissuta della sua famiglia.
Anche per questo motivo noi ci affezionammo subito a quella ragazza ed eravamo molto cordiali e amichevoli con lei. Lei invece dimostrava poco calore e una grande diffidenza. Non sopportava minimamente di essere toccata o sfiorata, nemmeno con un gesto affettuoso. Aveva paura di dormire da sola e quando ci si sedeva a tavola era la prima che, con un gesto furtivo, prendeva una michetta di pane e la nascondeva sotto il tovagliolo. Cercava sempre di stare con le spalle al muro e non riusciva di fare a meno di fissarci in continuazione, passando con i suoi splendidi occhi neri dalla mamma a me, a mio padre, a mio fratello, per tornare a mia madre come se avesse sempre paura di compiere cose sbagliate. E soprattutto quasi non parlava: sembrava non voler comunicare con nessuno. Comunque, dopo un po’ di tempo che Sarah si era inserita nella nostra famiglia, potemmo notare un lieve miglioramento nel suo approccio con noi.
Ogni giorno, dopo il pranzo e dopo la sistemazione della cucina, noi avevamo l’abitudine di sederci in salotto a chiacchierare del più e del meno, di raccontarci le ore di scuola, i discorsi degli amici e magari ridere e scherzare. Un giorno, mentre noi ragazzini stavamo in piena allegria e forse perché eravamo giovani non comprendevamo a pieno il suo stato d’animo, cercammo di coinvolgerla nelle nostre risate.
Ma Sarah era seria e ci fissava con occhi strani. Improvvisamente scoppiò in lacrime in un modo sconvolgente e urlò : “Perché io sono viva e gli altri no? E’ questo il mio castigo? “
Rimanemmo tutti ammutoliti e spaventati. Dopo qualche attimo la mamma, pure lei sconvolta e turbata, la prese tra le braccia e la tenne stretta, mentre cercava qualche parola adatta da mormorarle.
"Sii più serena…, verranno giorni migliori in cui potrai ricordare senza soffrire troppo".
Allora, come se un fiume avesse rotto gli argini, si udì Sarah replicare con voce incontrollata: "Ma io ho nei miei occhi, ogni momento, la visione dell’attimo che decretò la fine della mia famiglia!.. Eravamo in mezzo al cortile interno della "Risiera", proprio di fronte alle celle della morte e all’edificio destinato alle eliminazioni, con il forno crematorio. I tedeschi ci puntavano i fucili: i loro visi erano spietati e indifferenti! Un soldato, con una grande fascia sul braccio, prese me con uno strattone e mi spinse da un lato, mentre un altro, con il calcio del fucile, mandò il resto della mia famiglia verso un gruppo formato da vecchi e bambini.
Io gridai che volevo andare con loro, che là c’era la mia mamma, quella che faceva i cenni con la mano, ma mi arrivò uno ceffone che mi fece perdere i sensi e caddi a terra.
Quando, aiutata da altre disgraziate come me, rinvenni, quel gruppo non c’era più: li avevano portati via! Ho sperato a lungo di poterli rivedere ancora, che tutto fosse solo un sogno spaventoso, un incubo. Purtroppo non fu un sogno, ma un’orribile realtà: dai forni crematori nessuno tornava indietro”.
Ora Sarah sembrava un’ondata inarrestabile di emozioni, urlava, si agitava, piangeva senza pace.
La mamma la lasciò un po’ sfogare e poi, con dolcezza, riprese a parlarle: "Sarah, la vita non è mai facile, la tua anzi è stata troppo dura, ma può essere lo stesso, in futuro, bellissima. Devi chiudere questa fase troppo dolorosa della tua esistenza e aprirne un’altra. La tristezza che vedo nei tuoi occhi deve finire. Quando pensi alle tue sofferenze, hai un’espressione che si racconta da sola e serve solo a chiuderti in te stessa. Ti capita mai di guardare il cielo e pensare che lassù ci sono tutti i tuoi affetti, i quali vorrebbero che, almeno tu, ora, fossi un po’ più serena?"
…"Forse dovrei. Ma non trovo alcuna spiegazione alle aberrazioni perpetrate in quel diabolico campo di concentramento. I fatti incriminati di cui sono stata vittima e testimone, mi hanno tolto la vita, anche se fisicamente sono viva. Anche quando mi hanno violentato ho provato la morte: non fu solo il dolore fisico, fu qualcosa di straziante e umiliante, perché mi avevano tolto anche la dignità. L’unica cosa che riuscivo a pensare era: "Perché a me? Perché mi accade tutto questo?”
“Sì, questo modo di agire è incomprensibile e non ci sono giustificazioni. Signore Iddio, fa che ciò non si ripeta mai più. Ma non si può non amare la vita, non si può rinunciare alla vita".
A lungo, quel pomeriggio, mamma e Sarah rimasero abbracciate a parlare, scambiandosi lacrime e carezze.
Quell’episodio diede inizio al percorso di recupero di Sarah. Ogni giorno c’erano momenti in cui si poteva parlare con lei, anche del suo ingombrante passato, che non si poteva cancellare.
"Pensi ancora a loro?" chiedeva la mamma.
"Solo continuamente".
"Per dimenticare, bisogna ricordare fino a stancarsi l’anima e il cuore, e solo allora il passato non ci tormenterà più".
Nel 1954 Sarah incontrò l’uomo della sua vita, che la sposò e la protesse per sempre anche dai suoi incubi.
La sera antecedente al suo matrimonio, Sarah volle riunirci tutti.
Era commossa e cercava parole più grandi di lei per dirci la sua gratitudine e il suo affetto. Aveva chiesto a mia madre di farle da testimone di nozze e così noi tutti, come fossimo la sua famiglia, le avevamo fatto un grosso regalo. Tuttavia io avevo comperato per lei, per fargliene dono, un piccolo pendente d’oro a forma di sole e, porgendoglielo, dissi: "Ho scelto questo portafortuna per te, perché il sole è l’eterno simbolo della vita che si rinnova e dà speranza. E domattina il sole sorgerà per te, per dare luce e colore alla tua nuova vita".
Sarah rimase muta, ma alcune lacrime silenziose scesero lungo le sue guance e dal suo petto partì un grosso singhiozzo. Al mio sguardo preoccupato Sarah, prendendo con tenerezza la mia mano, disse: "Non temere, questo è il primo singhiozzo del sole".
Annamaria Marcadella Serraiotto

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